Il Jazz è la rivolta dell’emozione contro la repressione (J.A.Rogers)
Ma Whiplash, la pellicola diretta da Damien Chazelle nel 2014, finisce bene o male?
Ho avuto occasione di vederlo pochi giorni fa, e ancora oggi mi aggiro per casa in cerca di una risposta che metta a tacere il mio quesito. Faccio il caffè e riproduco il suo finale, mi sollazzo nella vasca da bagno e rivedo quella violenta battaglia finale, ma il mio repertorio culturale viene messo in dubbio e quindi ci rinuncio. La verità è che, Whiplash è il film che segna la fine della “morale classica” in ambito cinematografico e quindi, per capirlo, bisogna fare un’uppgrade, così come si fa con un dispositivo elettronico quando si vuole aggiornarlo.
Prima di proseguire nei contorcimenti di materia grigia, riassumo (senza spoiler) la trama e poi descrivo le tre coordinate psicologiche di Whiplash: la Batteria, il Sangue, la Musica.
La trama
Andrew è un ragazzo timido che frequenta il conservatorio di Manhattan, ma è anche un musicista provocante che vuole diventare il miglior batterista contemporaneo. Una mattina Terence Fletcher, lo spietato insegnante, nota il suo talento artistico e decide di offrirgli un posto nell’orchestra principale. Di qui la storia sarà un climax inarrestabile di violenza sadomasochista. I due entrano in conflitto e Fletcher mina alla salute fisica e psicologica del giovane Andrew che rinuncia persino all’affetto di Nicole. Il gioco subdolo continua fino a quando non accade l’incidente d’auto ad invertire i ruoli. In ultimo, lo scontro finale al JVC, il prestigioso festival di jazz.
Lacan, jazzista della psiche
Nella pellicola l’elemento della batteria viene fortemente sessualizzato fino a diventare la sorgente di quella che Freud chiama “pulsione di morte”, la tensione verso lo stato inorganico. Una rabbia distruttiva e controversa spingerà Andrew a suonare fino a procurarsi delle vesciche colanti di sangue che si sparge sui tamburi. Un gesto autolesivo che ipnotizza il pubblico per la consapevolezza della sua violenza. Più volte il regista, riprende Andrew mentre suona come in una dimensione autoerotica il cui liquido seminale è il suo stesso sangue. Ma perché lo sta facendo?
La risposta, anche in questo caso viene meno, ma se lo psicanalista Jean Jacques Lacan potesse rispondere, direbbe:
“C’est simple. Parce qu’il ne peut pas s’arrêter.”
(È semplice. Perché non riesce a smettere.)
E noi, con la pignola curiosità di un bambino all’età dei “perché”, con dispetto replicheremmo:
E perché non riesce a smettere?
L’elegante teoria psicanalitica dello sviluppo di Lacan, individua l’esistenza di un objet petit a, che sta per l’oggetto irraggiungibile del desiderio. Nell’ordine gerarchico del piacere, primo fra tutti c’è la ciclicità del godimento stesso, la supplica del vuoto come forma di intrattenimento del piacere. Il filosofo Slavoj Zizek, lacaniano per passione, recensendo una pellicola di Alfred Hitchcock, crea uno slogan che descrive la scabrosità di questo paradigma con: “Ama il tuo sintomo come te stesso”. L’avversità contro noi stessi che ci vede vittime del desiderio non è una condizione aliena o anomala, anzi nella società moderna è più manifesta che mai e prende il nome di Plus-godere.
Ci capita di plusgodere tutte le volte che beviamo la Coca-Cola anche se non ci disseta, quando a notte fonda controlliamo gli aggiornamenti su Instagram e quando non riusciamo a chiudere la telefonata con la persona che amiamo perdendoci nella dialettica del “Chiudi prima tu”.
Nel film Whiplash questa dinamica viene messa a nudo in tutta la sua mania e viene colorata crudelmente dall’elemento del Sangue. Da un punto di vista archetipico, il sangue è molto più che un liquido organico, ma si fa simbolo della metamorfosi vitale, della Resurrezione dell’Anima. Il giovane batterista prende consapevolezza del lavoro ben fatto solo quando vede scorrere il Sangue, come un serial killer che non smette di infierire sulla vittima se non quando è certo che sia morta.
Blue Mood
Un altro termine fondamentale del film è il colore, che vivacizza la tenue luminosità della pellicola.
Da una parte c’è il colore rosso vivificante e liquido e da un’altra il blu etereo, il colore del Jazz, della malinconia, non a caso la lingua inglese adopera l’espressione “blue mood”, per indicare uno stato d’animo di tristezza. Nonostante ciò, a smorzare la solitudine intrinseca di Andrew c’è la musica. Gli strumenti dell’orchestra, si sovrappongono autonomamente allo spazio dialogico e analogico, esprimendo i desideri confusi e repressi del batterista e prendendo parte al film come il tormento del suo inconscio.
Avevo già avvisato i lettori degli eventuali “contorcimenti di materia grigia”, ora per i più coraggiosi, spiegherò il motivo per cui non riesco a trovare una risposta al finale del film.
Tra i dogmi della cinematografia tradizionale c’è sempre l’intramontabile vittoria del bene sul male o viceversa. Chi ha visto Whiplash ed è abituato all’impianto classico, può trovarsi destabilizzato da un’anomalia e per questo può continuare a chiedersi:
Conclusioni: ma il film finisce bene o male?
Avanzando ad un’interpretazione psicoanalitica, l’insegnante perverso rappresenta gli assilli del Super-Io, l’innocenza di Andrew si identifica con l’Io e poi c’è l’Es, il movimento musicale incessante che non riesce ad esprimersi. Nella battaglia conclusiva l’Es prende il sopravvento su Andrew sulle note di “Whiplash”, e qui quella che sembrerebbe l’unione con il Super-Io. Ma questo non avviene, resta ancora uno scarto irrisolto tra le due polarità, un plus-godere residuo che impedisce ad entrambi di arrestarsi.
Nei continui spostamenti fotografici, dal maestro ad Andrew alla batteria, Damien Chazelle crea dei repentini cambi di prospettiva, sollecitando i giovani cinefili a realizzare i propri sogni e a coltivare un plus godere positivo verso ciò che si ama fare per davvero.
Invita il giovane pubblico a di-mostrare di che pasta è fatto, ad una conversione concreta dell’isteria psichica in Verità espressiva. Fu lo stesso Lacan, che soffermandosi sugli attacchi nevrotici, diede voce al motto isterico immaginandolo attraverso la frase:
C’est moi, la vérité, qui parle.
(Sono io, la verità, che parla.)
P.S. CLICCA QUI per leggere la lettura immaginale del Postino di Massimo Troisi
Bell’articolo! Non solo coglie nel segno lumeggiando su quel senso di incompiutezza che il film trasmette , ma costituisce pure una lettura piacevolissima e scorrevole che ben si attaglia alla libertà espressiva di cui il jazz si fa da sempre espressione.