La solitudine come necessità
Una delle sfide più ardue per il primate iperconnesso destinato a svegliarsi nel nostro tempo sembra essere “accontentarsi della propria compagnia”. È molto più complicato di quel che sembra abituarsi al fatto che presto o tardi una parte di sé viene richiamata all’appello della solitudine. Anche se si dispone di congegni che consentono l’eterno contatto con gli altri, prendere una boccata di solitudine per alcuni diventa quasi un’esigenza fisiologica; per altri invece, il momento meditativo assume le sembianze di uno spettro minaccioso da cui proteggersi.
Per tutti coloro che hanno capito il trucco per girovagare liberamente nella propria coscienza, rifugiarsi nel silenzio della solitudine è un gioco ricreativo ma ad una moltitudine di persone risulta come un sentiero lineare che porta all’infernale bolgia dei pensieri inopportuni, gli stessi in grado di distogliere abilmente dalla serenità quotidiana.
Ma cosa fare se il richiamo della solitudine è così forte da sembrare un obbligo erogato dal proprio governo interiore?
Capita infatti di vivere degli istanti di solitudine coatta anche quando si è in compagnia di molti amici e ci si sente smarriti e distanti. Questa manifestazione sconveniente è destinata a rimanere un attimo di ricognizione viscerale se si asseconda il richiamo della solitudine interiore; altrimenti, se si elude il desiderio di quell’ultima, si rischia di aprire un vortice perpetuo che isola definitivamente senza riuscire a risalire alla causa. Per chi teme la febbre della solitudine, l’unica medicina è altra solitudine. Le chiacchiere oziose al telefono, i dialoghi di circostanza con la vicina sul pianerottolo non sono altro che dei tentativi disperati che rimandano la partita a scacchi con i propri pensieri.
Molti audaci avventurieri hanno percorso il cammino della solitudine e in genere quello che capita sul sentiero resta un segreto inconfessabile e impossibile da raccontare. Quello che sappiamo è che la maggior parte dei “*vagabondi ermetici” fanno ritorno sani e intatti dal Regno della Solitudine e assicurano di aver trovato un tesoro.
Potrei non essere portato al vagabondaggio psichico che si presenta quando si sta per conto proprio?
Questa è la solita domanda posta dalle persone incerte di intraprendere il viaggio. Bisogna fare delle precisazioni. Anzitutto, ciascuno di noi può intraprendere il cammino interiore, nessuno fa eccezione! È stata accertata l’esistenza della distinzione tra introversi ed estroversi ma anche in questo caso la classificazione non converge ad una componente inalterabile della personalità, piuttosto corrisponde ad un tratto. Introversione ed estroversione possono essere qualità che vengono apprese. Non a caso, ad un certo punto della vita, l’estroverso non è più disposto a reggere il ritmo morboso dell’ininterrotto scambio di opinioni e viene come rapito da un sentimento malinconico che lo porta a mettersi in discussione. L’estroverso inizierà a sentirsi quasi straniato dall’alterazione delle sue stesse emozioni e in quei momenti sembrerà difficile tornare indietro anzi, opporsi al cambiamento per paura di non poter recuperare la “serenità” di un tempo rischia di essere uno sforzo controproducente.
Così come il museo solitario dell’introversione è una fortezza che pochi eletti sono in grado di impreziosire, anche la costante ricezione del prossimo è una pratica che va applicata con estrema prudenza, in cui si rischia di perdere l’identità personale. All’uomo moderno viene raccomandato di assumere un equilibrio tra entrambe le due dimensioni psichiche: l’una pubblica e l’altra privata.
Il primo chiarimento che va espresso ha a che fare con la demolizione dei pregiudizi che riducono irrimediabilmente l’introversione e l’estroversione a due poli imprescindibili, impedendo l’avverarsi di spostamenti spontanei tra entrambe le coordinate. Abbiamo tutti le potenzialità e il diritto di vivere un sano colloquio solitario ma bisogna portare con sé gli strumenti giusti. Per questo, ho deciso di immaginare il soliloquio come un itinerario in cui bisogna viaggiare leggeri e portare solo lo stretto necessario.
Solitudine “Starter Kit”:
Il Dizionario della Solitudine
Una volta intrapreso il viaggio, si raggiunge una terra apparentemente straniera in cui si parla l’idioma della solitudine. Bisogna dimenticare gli orpelli e le formalità di tutti i giorni per riservare a sé stessi un ritmo dialogico disteso e paziente.
L’ombrello dell’umorismo
Il meteo nel Regno della Solitudine è imprevedibile. I ragionamenti possono assumere le sembianze delle escursioni termiche di fine stagione, di tempeste di sabbia implacabili o possono rassicurare come una docile pioggerellina domenicale. Quante volte capita di ricordare, a distanza di tempo, una gaffè che si poteva evitare. Il pensiero può tornare con l’intento di farci sentire inadeguati o impotenti e in questi casi un sano senso dell’umorismo può tornarci utile per ricordare che ormai è acqua passata.
Gli occhiali dell’onestà
Meditare in solitudine vuole dire circondarsi di oggetti personali e momoir intimi che vanno osservati con cura e onestà. L’unico modo per osservare sé stessi è farlo in maniera sincera. L’occasione più preziosa che la vita può offrire è “lasciarti in solitudine” anche solo per un po’. Sono quelli i momenti in cui si trovano delle soluzioni anche ai problemi più assillanti. Quando si sta da soli “accade qualcosa” senza che ci se ne renda conto ma occorre guardarsi dentro con trasparenza anche quando, a furia di ricomporre il puzzle, si scopre di aver sbagliato o di aver agito secondo le regole dell’egoismo.
Un caricabatteria per il coraggio
Capita di voler gettare la spugna quando i ricordi portano verso “la selva oscura” che preferivamo dimenticare. Esistono degli eventi spiacevoli che lasciano conti in sospeso o troppe domande che formano nel tempo una foresta che marcescente, invalidando lo scorrere tranquillo della riflessione. In certi casi il coraggio è tutto ciò che serve per affrontare delle verità personali. Coraggio può voler dire anche porsi domande fastidiose.
Aiutarsi significa offrirsi l’occasione di venire a contatto con gli scomodi compromessi della vita a cui bisogna attribuire un significato individuale.
L’orologio della tolleranza
Chi ricorda gli orologi “colanti” raffigurati da Salvator Dalì nel quadro “La persistenza della memoria”? Anche il tempo è differente quando si sta da soli. Bisogna tollerare la persistenza del proprio racconto autobiografico e tollerare la propria umanità. Non siamo fatti per stare da soli secondo la dura legge della sopravvivenza che ci ha condotti fino ad oggi.
Per molti la solitudine è insopportabile perché non si tollerano gli ostacoli che la vita ha riservato. Iniziando ad essere comprensivi e disponibili verso sé stessi s’impara ad esserlo anche nei confronti del prossimo. Il tempo trascorso in compagnia degli altri, quando si conosce se stessi, è il capitale umano che viene rivalutato in base al tempo che ciascuno di noi trascorre in solitudine.
P.S. CLICCA QUI per leggere Rinunciare alla solitudine per essere un padre