Viviamo negli schermi
Dal diario di Rorschach: Blake aveva capito. Lo trattava come uno scherzo, ma aveva capito. Vedeva le crepe nella società, gli ometti mascherati che cercavano di reggerla in piedi. Vedeva il vero volto del XX secolo e aveva deciso di diventarne un riflesso, una parodia. Nessun altro lo vedeva, per questo era solo. [Alan Moore, Whatchmen]
Il gioco dello Scrimolo
La nostra società è fatta di schermi. Viviamo la maggior parte della giornata guardando uno schermo, che sia il pc, la televisione o il cellulare.
Lo schermo è una superficie atta a diffondere o riflettere luce o altre radiazioni. Inoltre è la parte di un dispositivo che cerca di comunicarci qualcosa. È la sua maschera, il modo di scambiare immagini tra persone. Lo schermo mostra e comunica.
Psicologicamente siamo degli schermi quando proiettiamo, ci mostriamo o comunichiamo.
Lo schermo è un confine, nello specifico uno scrimolo. Infatti sembra che il termine scrimolo, secondo alcuni filologi, sia il diminutivo della parola tedesca schirm che sta per schermo.
Lo scrimolo è un punto di separazione, l’orlo di un precipizio. Essere l’orlo di un precipizio significa essere la terra ferma e il baratro, il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, il rassicurante e il pericoloso, dio e il diavolo.
Quando siamo schermi iniziamo a giocare a questo particolare gioco dello scrimolo, come se stessimo camminando sull’orlo di un precipizio.
Vediamo insieme come.
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Black Mirror
Seguo ormai da un paio d’anni questa serie tv: Black Mirror, lo Specchio Nero.
Centro di questa serie Tv è il mito del progresso, l’incedere delle nuove tecnologie. Il mito del progresso è il primo passo per poter iniziare a giocare con lo scrimolo.
Adolf Guggenbühl-Craig, nel suo libro Il vecchio stolto – dove analizza le deformazioni dei miti -, afferma: Il grande mito dell’età moderna è quello del progresso. Esso continua ancora ad agire, sullo sfondo o in primo piano, nella politica, nella cultura, nella psicologia – in tutti i campi della nostra vita. Molti di noi danno per scontato che si facciano sempre progressi.
Lo schermo, oggi, è sicuramente uno dei simboli del mito del progresso.
Secondo Guggenbuhl-Craig il mito del progresso deriva in parte dal Cristianesimo che ci promette il Paradiso come fine della vita terrena. Anche la psicologia moderna è imbevuta del mito del progresso della convinzione che sviluppo significhi sempre miglioramento e che il nuovo sia per principio migliore del vecchio. Persino il “processo di individuazione” junghiano ha l’odore del progresso secondo lo psicoanalista tedesco.
Mi vengono in mente anche alcune filosofie orientali che tendono all’illuminazione o al nirvana, o altri concetti simili. C’è sempre l’ombra del progresso che incombe sulla nostra persona, come se dovessimo sempre migliorare.
Siamo talmente ottenebrati da questa idea che, il raggiungimento ossessivo del progresso, del benessere, dell’individuazione o dell’illuminazione, ci procura un’intensa sofferenza e senso di ansia, facendoci cadere al di là del precipizio: “se non raggiungo il mio obiettivo” e “se non mi pongo obiettivi migliori” sono Nessuno. Eppure la vita oltre che di progressione è fatta anche di regressione.
Nel nostro gioco dello scrimolo, progressione e regressione si alternano vicendevolmente.
Regredire non è sinonimo di peggiorare. Può essere anche un miglioramento, ma soprattutto può essere necessario.
La psicoanalisi, grazie al suo lavoro contra-naturam – forzato – e che non necessariamente segue il processo naturale delle cose, è il luogo dove una Psiche malata dall’inflazione del progresso, può trovare la sua necessaria regressione.
Lo schermo, oggettivo e soggettivo, rappresenta questo punto di separazione tra il progresso e il regresso. Guardando uno schermo, infatti, possiamo progredire, così come possiamo regredire. Abbiamo la netta sensazione di trovarci sull’orlo di uno scrimolo, possiamo rimanere in piedi sul ciglio del precipizio, ma allo stesso tempo possiamo scivolare e cadere nel baratro.
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Lo Specchio Nero e il Selfie
La traduzione di Black Mirror è Specchio Nero. Charlie Brooker, il produttore della serie televisiva, ha rivelato che il titolo l’ha ideato “spegnendo il cellulare”.
Quando spegniamo uno schermo accade qualcosa di magico. Ci possiamo specchiare nell’oscurità. Anche lo schermo è quindi uno specchio.
Di fronte ad uno schermo abbiamo la possibilità di specchiarci solo quando si spegne. Il fatto che sia acceso ci impedisce una riflessione. Il progresso non è riflessivo, ma solo proiettivo. Per poterci specchiare dobbiamo regredire, ovvero spegnere il cellulare.
L’unico momento in cui possiamo specchiarci attraverso uno schermo acceso è il selfie. Ed è molto curioso come il tanto demonizzato selfie sia in realtà l’unica occasione nella quale possiamo guardarci esplicitamente attraverso uno schermo, l’unica via per accedere alla propria immagine. Narciso, senza il suffisso -ismo, è necessario per incontrare sé stessi. Il pericolo della guerra al narcisismo è di uccidere il mito di Narciso che ci serve a scrutarci per ciò che siamo.
In sintesi abbiamo due possibilità per osservarci attraverso uno schermo: la prima riguarda la regressione – quindi lo spegnimento dello stesso –, dobbiamo ritirare le nostre proiezioni per scoprirci; la seconda riguarda un’azione vituperata e considerata un atto di narcisismo – il selfie –.
Scopriamo, quindi, una “funzione buona” del male narcisistico: la riflessività e l’osservazione di sé stessi.
Guardando uno schermo siamo su uno scrimolo molto scivoloso: possiamo essere profondi, ma al tempo stesso superficiali, riflessivi o narcisisti.
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Schermi e Psicoanalisi
Di solito ci avviciniamo alla metafora dello specchio quando studiamo la psicologia: il lavoro analitico significa specchiarsi attraverso l’altro. Sappiamo inoltre, come ci suggeriva Sándor Ferenczi (psicoanalista ungherese), che l’analisi è reciproca: l’analista è lo specchio del paziente e viceversa.
Se immaginiamo quindi un tipico setting terapeutico possiamo vedere distintamente due specchi uno di fronte l’altro.
Due specchi uno di fronte l’altro riflettono l’infinito.
Questa è l’essenza della psicologia, l’essenza di due persone in relazione analitica. È un’immagine che descrive il “gioco analitico” dell’analista e del paziente: due specchi uno di fronte all’altro che guardano le possibilità infinite della Psiche. Questo gioco di riflessioni è il gioco dello scrimolo.
Lo specchio, per funzionare, ha bisogno di luce. Al buio lo specchio non funziona. Psicologicamente non possiamo specchiare la parte oscura di noi, ma soltanto la parte illuminata. Non è un caso che gli schermi proiettino luci e non ombre. Ecco la radice del concetto di inconscio: ciò che è buio nel momento in cui si illumina una parte di psiche. L’inconscio è “l’altra” parte di un dato momento.
Basiamo gran parte della nostra conoscenza sulla vista ma, per conoscere la parte oscura di noi stessi, non bastano gli occhi. Dobbiamo servirci degli altri sensi. La parte oscura di noi va ascoltata, va toccata, assaporata o annusata. Entrare in contatto con la parte oscura è un’azione carnale e non può bastare la distanza. Ecco perché gli psicoanalisti che lavorano a distanza hanno il limite di non poter raggiungere il mondo infero dell’anima.
Apollo è il dio della conoscenza e della luce, infatti la sua arma era l’arco, operava a distanza. Apollo è necessario alla psicoterapia, ma non basta per approfondire l’altro.
Le diagnosi, ad esempio, sono una distanza tra paziente e analista, l’empatia mette distanza, le teorie mettono distanza, i complessi sono una distanza, le conoscenze a volte possono mettere distanza. È la presunzione di conoscere il funzionamento dell’altro che mette una distanza incolmabile tra me e l’altro.
Per questo, quando ho una persona davanti, dimentico tutto ciò che so ed inizio a lavorare lasciandomi guidare dalle immagini dell’altro e dalle mie.
Ludwig Wittgenstein diceva che le parole sono azioni. Possiamo usare queste azioni per avvicinarci o per allontanarci dall’altro. Troppo spesso, purtroppo, le parole sono usate per allontanarsi e allontanare.
Quando siamo di fronte ad uno schermo possiamo avvicinarci a persone lontane, ma al contempo possiamo allontanarci da persone vicine. Siamo sempre sull’orlo di un precipizio. Ci avvicineremo o ci allontaneremo? D’altronde lo schermo interiore, che ci permette la comunicazione con l’altro, può essere acceso, e quindi avere una funzione proiettiva e di allontanamento, o, viceversa, può essere spento, e attivare il gioco degli specchi, il gioco dello scrimolo.
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Realtà o illusione?
C’è una domanda fondamentale che ci poniamo ogni volta che interagiamo con questi schermi: siamo di fronte a realtà o a illusione? Questo alternarsi tra realtà e illusione virtuale fa parte del gioco dello scrimolo che lo schermo ci invita a giocare.
Ci troviamo in un momento storico nel quale diamo la risposta che ci conviene. Se proviamo sofferenza o disagio ci rispondiamo che siamo di fronte a falsità e illusione, altrimenti ci convinciamo che siamo di fronte alla realtà.
Credo, tuttavia, che ciò che accade sui nostri schermi sia la nostra indiscutibile realtà. Noi ci mostriamo per quelli che siamo veramente attraverso gli schermi e i social.
Ma cosa siamo veramente?
Forse non è questa la domanda corretta da porci, piuttosto dovremmo chiederci: quale parte di noi mostriamo attraverso gli schermi?
Ormai lo schermo è la nuova forma di comunicazione e come ogni forma di comunicazione porta con sé del falso e del vero.
Credo però che tutto ciò che mostra sia autentico perché accade. Non ha senso chiedersi se sia realtà o illusione, perché sta accadendo, mi coinvolge e mi modifica.
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American Gods
Gli schermi sono dèi.
Adesso, come avete avuto modo di scoprire da soli, in America stanno nascendo nuovi dèi che crescono sopra nodi di fede: gli dèi delle carte di credito e delle autostrade, di Internet e del telefono, della radio e dell’ospedale e della televisione, dèi fatti di plastica, di suonerie e di neon. Dèi pieni di orgoglio, creature grasse e sciocche, tronfie perché si sentono nuove e importanti. [Neil Gaiman, American Gods]
Le nostre passioni sono raccontate dai miti. I miti descrivono gli archetipi portando con sé storie di uomini e di dèi. Ogni periodo storico ha i suoi dèi.
Sappiamo benissimo come godere di questi nuovi dèi, ma nel contempo li additiamo come se fossero il male della nostra società.
Gli dèi dei miti erano umani e avevano pregi e difetti. Il dio cristiano era buono, malvagio e spietato al tempo stesso. Un dio iroso, quasi come Ares/Marte.
Ogni divinità porta con sé il suo lato umano e oscuro, così come in passato, anche ora. Quindi è inutile continuare ad arrovellarci la pancia pensando che gli antichi dèi fossero migliori di quelli nuovi. Ogni dio appena nato mostra con estrema potenza i suoi lati benevoli e dannosi.
La nostra generazione, che ha fatto del progresso il suo dio, di conseguenza ha eletto anche la sua malattia: il progresso.
Gli dèi sono diventati malattie disse Jung. In realtà gli dèi sono sempre stati le nostre malattie. Oggi il mito del progresso è dio e malattia, come lo sono stati in passato Zeus, Atena, Dioniso, Artemide…
Vivere il mito del progresso significa vivere un dio, ma al contempo vivere una malattia. La sottile differenza è data da come ci muoviamo sullo scrimolo.
In particolare lo schermo è uno dei nostri dèi contemporanei che ci abitano. Potremmo dire che è il dio della comunicazione, una versione contemporanea, ma modificata, di Hermes.
Infatti, secondo James Hillman, la comunicazione attraverso gli schermi è un sintomo dell’intossicazione ermetica che riduce la comunicazione a un’unica definizione, trascurando le arti, il corpo, le sottigliezze del silenzio e della percezione sensoriale. Questa ipertrofia di Ermes dà per scontato che in nostri PC, iPod, Blackberry, PalyStation, Xbox, ATM e i nostri vari “server” siano effettivamente diventati indispensabili “chirungas” per “ricevere i messaggi”, “tenersi in contatto”, per essere “abilitati” a essere dentro la vita e a goderla. [Figure del mito]
Lo stesso schermo, pertanto, può essere dio e malattia, può proiettare o riflettere, facilitare la comunicazione o impedirla, essere reale o virtuale. Il nostro schermo interiore ci fa vivere tutte queste emozioni e sensazioni paradossali come quando ci troviamo sull’orlo del precipizio. Ma forse la vita è proprio questa: camminare sul ciglio del baratro senza sapere se il prossimo passo che faremo sarà un passo sicuro o un passo falso.
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Conclusioni
Siamo parte di una nuova generazione, la generazione degli schermi. Una generazione che si specchia solamente quando non c’è luce che illumina, solamente quando si spengono le luci degli schermi e della vita quotidiana. Spegnere il proprio schermo interiore significa spegnere le proprie proiezioni.
Guardare uno schermo significa guardare il punto di separazione tra il mito del progresso e la regressione; possiamo essere profondi o superficiali; possiamo essere facilitati nella comunicazione o prendere le distanze; possiamo guardare la realtà o un’illusione virtuale; possiamo avere davanti un dio o una malattia.
Il nostro schermo interiore ci fa sentire proprio questa sensazione di essere in bilico, sull’orlo dello scrimolo.
Mi viene infine in mente l’incipit di uno dei romanzi che apprezzo maggiormente di Nabokov: Invito ad una decapitazione.
Cincinnatus C., ha un difetto: è «opaco», nel senso che i suoi pensieri e le sue sensazioni non sono trasparenti agli occhi di coloro che lo circondano – perciò produce «una strana impressione, come di un solitario, oscuro ostacolo in quel mondo di anime reciprocamente trasparenti». In quel mondo, che lungi dall’essere un paradiso – come gli ignari sarebbero inclini a pensare – è piuttosto il suo beffardo capovolgimento, l’opacità non è solo un difetto, ma una grave colpa, forse la più grave: è il segno che rivela la «turpitudine gnostica» del singolo. In quel mondo si viene condannati a morte non per ciò che si fa ma per ciò che si è. Quindi Cincinnatus dovrà essere decapitato – e non sa quando. Cincinnatus non ha fatto nulla di turpe, ma certamente è uno gnostico, se non altro perché vede il mondo attorno a sé come l’abborracciata messa in scena di un funesto demiurgo. E la sua percezione è esatta: la cella, con il ragno obeso che condivide la vita del condannato, e tutto ciò che gli appare – il carceriere, il compagno di prigionia, la moglie in visita con codazzo di parenti e l’amante del momento, la madre, la figlia dodicenne del direttore del penitenziario («volatile fanciulla» in cui si riconoscerà un prodromo, carcerario e lancinante, di Lolita): tutto è parodia. Salvo che, in quel mondo, le parodie uccidono. E uccidono mantenendo un’aria «di calda camaraderie» (è la perfezione della tortura).
Quando sono davanti ad uno schermo mi sento come Cincinnatus, il protagonista del romanzo di Nabokov, davanti ad una abborracciata messa in scena di un funesto demiurgo.
Cincinnatus sa che la società è una grande parodia. Tradotto in termini psichici, sa che la Psiche è fatta di paradossi, come diceva Adolf Guggenbühl-Craig. Gli stessi schermi sono dei paradossi, degli scrimoli sui quali è pericoloso muoversi: possono portarci verso il paradiso, così come possono condurci nel baratro dei più profondi e gelidi inferi.
Tuttavia dobbiamo accettare l’invito dello schermo a giocare al gioco dello scrimolo e dei paradossi. Non possiamo rifiutarci, altrimenti diventeremmo opachi, soli, come Cincinnatus. Ma soprattutto ci priveremmo di un’opportunità, l’opportunità di vivere quella ricca e abborracciata messa in scena di un funesto demiurgo che è la vita.
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