Maintenant je suis dans l’autre vie, dans laquelle je vois parfois même les anges et j’entends la musique. Mais je sens que ce n’est pas juste, que c’est un peu aussi le monde de la folie; tout change alentours, vous aussi me semblez détaché, éloigné de moi… (Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Feltrinelli, 2015: p. 46)
Queste parole, riportate da Eugenio Borgna, sono state pronunciate da Elena, una paziente schizofrenica. Dopo essere passata per la riduzionistica visione encefalo-centrica, la psicoterapia potrebbe recuperare dalla filosofia e dall’antropologia l’importanza dell’essere nella comprensione di quelli che un tempo erano pensati come “disturbi”, “malattie”, e che oggi vanno ricompresi sotto la più corretta veste di “modi d’essere”, allo stesso modo in cui i “sintomi” non sono più rigidi segnali che indicano la fumosa concezione del patologico, ma piuttosto segni linguistici che esprimono un vissuto (Erlebnis).
Solo una psicologia che abbia in sé la nozione dell’archetipo può capire quanto sia fondamentale vedere in ogni manifestazione un significato che spesso, come nel caso che vedremo, rimanda ad un’atavica, archetipica, educazione ad un determinato modo di concepire e vedere il mondo. Questa è la storia della cultura di coloro che sono nati sotto l’archetipo del nulla.
Psicologia Archetipica e nichilismo
Mai come in questo periodo torna fondamentale il ruolo dello psicologo nella società moderna. Stiamo attraversando un cambiamento antropologico causato dalla crisi generata dal coronavirus che, se ignorato, potrebbe portare a conseguenze irreversibili. In questa epoca di terrore e diffidenza, dove ogni Altro è visto come potenziale aggressore e ci si rinchiude sempre più nell’egoistica autoreferenzialità, non c’è da sorprendersi se la depressione si riconferma ancora come la malattia del secolo.
James Hillman riteneva che la depressione avesse comunque delle caratteristiche positive, è indice di insofferenza ad un determinato sistema oppressivo, incita alla creatività e al superamento degli ostacoli. Va detto però che esistono anche forme di depressione “catatoniche”, troppo oppressive, percepite come soffocanti e immobilizzanti, e forse è giunto il momento che si incominci a riconoscere la potenza delle idee nei meccanismi di oppressione che generano disagio nell’individuo.
Possiamo vedere la nozione di archetipo analoga a quella del prototipo semantico-cognitivo, che la linguistica e l’antropologia usano per esprimere una idea, reificata nella collettività, assimilata dalla cultura e onnipresente nel vivere sociale. Un’idea reificata diviene un dogma inconsciamente assunto; non si è consapevoli della sua presenza, esso agisce ed influenza a livello inconscio, ma fa parte della storia del pensiero della civiltà umana che lo ha introiettato. La sua reificazione, che rende la parola “cosa potente”, lo pone a fondamento, ad origine (appunto arkhḗ) dei modi di pensare e ragionare di una società.
Quel che sto cercando di dire è che la psicologia archetipica manca di rilevare la presenza di un archetipo fondamentale nell’inconscio collettivo, uno talmente potente ed antico da essere dato per scontato. Hillman talvolta sembra rilevarlo nei suoi scritti, ma la sua posizione non è abbastanza determinata e radicale da lasciare intendere che avesse capito quanto l’origine di questo “mostro” psicologico sia effettivamente grave.
Il nichilismo come inconscio collettivo
C’è però qualcuno che se n’è accorto: il filosofo Emanuele Severino ha ripensato radicalmente l’idea di nichilismo, sottraendola alla più nota interpretazione nietzschiana che lo vedeva come svalutazione dei valori, mancanza di scopo e mancanza di risposte.
Per Severino il nichilismo è un inconscio collettivo che si stabilisce alle origini del pensiero occidentale, quando si inizia a pensare l’essere come opposto al nulla, dimenticandosi che il nulla, non è, dunque non si dà come possibilità (“Essenza del Nichilismo”, Adelphi, 1982: p. 66).
Esiste piuttosto l’idea di nulla, la quale, se reificata, “archetipata” (resa un archetipo) si radica nelle menti e viene percepito come possibilità: una minaccia reale di annichilimento dell’essere. Questa ovviamente è una rilettura, in chiave hillmaniana, della filosofia di Severino, il quale non si era mai pensato come psicologo, pur avendo manifestato apprezzamenti per il lavoro di Hillman.
Le manifestazioni del nichilismo sono molteplici, ed invadono ogni aspetto della vita umana, sempre però accompagnando l’angoscia dell’esistenza. Dalle forme più lievi come la depressione all’esasperazione psicotica, in cui il nichilismo è rigettato con tutte le forze dall’Anima che si ribella con tutte le sue forze alle ombre oppressive del nulla. La crisi della presenza individuata da De Martino non è che una forma di crollo all’angoscia nichilistica. (L’Evidenza dell’Anima. Recuperare l’Essere dell’Individuo”, Edizioni Etiche Nuova Coscienza, 2020: p. 546-547)
La psicologia archetipica potrebbe dunque trarre enorme vantaggio nell’acquisire queste nozioni che partono dalla filosofia di Severino, e invitano a ripensare il nulla come un concetto reificato e non come una minaccia reale. La paura della morte e il senso apocalittico che accompagna l’esperienza paranoide, sono stati ricondotti da Ernesto de Martino proprio all’idea nichilistica che accompagna il vissuto sofferente. Quello che in passato era considerato “malattia” o “disordine psichico”, in realtà «è caratterizzato da una dinamica disintegrativa rispetto a qualsiasi ordine culturale, a qualsiasi sistema di valori intersoggettivi» (“La Fine del Mondo”, Einaudi, 2019: p. 193-194).
La questione ovviamente è molto complessa e non può essere riassunta in poche righe, ma è certo che una determinata consapevolezza contro una convinzione distruttiva può cambiare drasticamente il modo di vivere una condizione di disagio. Credere che le cose vadano nel nulla e che, incoerentemente, ciò che è possa diventare ciò che non-è, ossia che l’esistenza possa annichilirsi, apre le porte ad una visione del mondo predisposta al costante ed angosciante rischio antropologico di cadere nella crisi della presenza. Noi confondiamo ciò che scompare per un annichilimento dell’essere, sebbene non si possa dire in nessun caso che una distruzione sia totale. In passato la morte era vista come un viaggio, un passaggio ad un’altra esistenza, mentre l’odierna visione materialista e nichilista crede effettivamente che l’essere possa distruggersi, che ciò che scompare non è semplicemente uscito fuori dal piano dell’apparire, ma piuttosto che sia definitivamente cessato di esistere.
Chi avverte estaticamente l’unità di se stesso e dell’essere, considera illusoria la molteplicità degli eventi, perciò, quando si presentano, non fa scattare la diade automatica bene/male, amico/nemico. Si lascia attraversare, come un mare, uno specchio. (Archetipi. Aure. Verità segrete. Dioniso errante. Tutto ciò che conosciamo ignorandolo, Marsilio, 2016: p. 38]
Una delle condizioni in cui l’essere può prefigurare la propria (apparente) fine è specialmente lo stato di oppressione. La condizione in cui all’essere non viene permesso di essere è anche la condizione che porta il soggetto ad immaginare la possibilità dello sprofondamento del proprio essere. La grande opera di Hillman sul Codice dell’Anima ha dimostrato come ogni soggettività possieda delle sue predisposizioni. Usando la metafora del daímon come guida dell’Anima e della ghianda Hillman voleva significare che, come ogni seme è destinato a diventare una precisa pianta, ogni Anima ha l’esigenza di esprimersi in un determinato modo. Un seme però, per poter germogliare, ha bisogno delle giuste condizioni: nutrimento, il terreno adatto e la luce. In una condizione di oppressione il seme è destinato a soffocare. Allo stesso modo, l’essere di ogni individuo (questo “essere” è identificabile con l’Anima delle soggettività) necessita di esprimersi nel corso della vita: lasciate essere l’essere. Quando non si lascia essere l’Anima ecco che la condizione di oppressione porta ad un’ipotesi di annichilimento dell’essere. Come se l’essere diventasse nulla. E questa crisi è vissuta psicologicamente.
Questioni che apparentemente potrebbero sembrare così distanti dalla contingenza psicologica, in realtà sono tra gli attori principali delle manifestazioni anche in ambito psicopatologico. Sentirsi annichiliti, andare verso il nulla, una sensazione di angoscia che accompagna la convinzione che nulla rimarrà più di noi. Questo è il vissuto psicopatologico che alcuni psichiatri hanno definito “fine del mondo” o “sprofondamento del mondo” (Weltuntergang) e che non possono essere compresi se non facciamo dialogare psicologia, filosofia e antropologia. Esiste anche un aspetto culturale e religioso che infatti si propone come argine, “dispositivo” (in linguaggio tecnico) per cercare di contenere questa potenza devastante che è l’archetipo del nulla. In un’interpretazione esistenzialista, il rito e la religione nascono principalmente come dispositivo di contenimento di questa potenza, un argine costituito dalla destoroficazione irrelativa che ridona forza alla presenza, all’esserci (Dasein), contro la minaccia del nulla, dell’assenza. In assenza del rito, la psicoterapia consapevole di questi meccanismi può costituire il nuovo argine al rischio di questa crisi.
Conclusioni
Specie in questo periodo di crisi globale, in cui ogni certezza sembra vacillare e la paura si impossessa degli animi, si fa ancora più imponente la minaccia di un archetipo del nulla. L’inquietante immagine dell’annichilimento e della distruzione degli animi diviene così un’ipotesi e un rischio considerabile. Mai come ora la figura dello psicologo consapevole di questa condizione antropologica diventa essenziale come argine contro l’avanzata di una terrificante idea. Solo con la consapevolezza dell’inconsistenza di una simile minaccia infatti si potrà ricostruire ciò che il terrore sta distruggendo, tanto nella psiche quanto nella società.
P.S. CLICCA QUI per leggere Isteria di massa e Coronavirus. Nichilismo come archetipo del nulla