La Paura
Come ogni domenica, continua l’appuntamento settimanale con il romanzo in pillole del dott. Luca Urbano Blasetti, e questa non è una sorpresa ormai.
Cos’è la paura, a cosa serve?
La mia ‘paura’ è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso [Franz Kafka]
L’arte immaginale è sempre stata vicina alla Paura, in particolare la settima arte. Ad esempio mi torna in mente il famoso e indimenticabile titolo del regista Terry Gilliam: Paura e delirio a Las Vegas, oppure il gracile omino spaventato del film d’animazione della Pixar: Inside out.
Potrei continuare il lungo elenco degli approfondimenti che è possibile fare in relazione alla Paura, ma non ti rubo altro tempo e ti lascio al racconto di Luca.
Buona lettura!
Scontro frontale in corridoio – Tredicesima istantanea
Mulinavo le mani in continuazione quando parlavo con Francesca in quel periodo. Mulinavo con gesti ampi ed enfatici e l’aria, stancamente, si spostava come fa un leone dietro la spinta di un cucciolo, teneramente lo asseconda. Una sorta di Pollock senza pennello che dipingeva l’aria di tutte le immagini che lo invadevano. Sembrava volessi riprodurre il cosmo che si stava generando nel grembo della Grande Madre di fronte a me. Solo che, mentre Francesca, faticosamente disponibile a quel miracolo, gestava, io, miserabilmente, gesticolavo e, con quel mulinare nell’aria, cercavo di imitare quel miracolo pur sapendo di esserne escluso. In verità il suo gestare rispondeva allo scopo di generare senza paura, mentre il mio gesticolare rispondeva allo scopo di fuggire dalla paura del generare. Dunque eccomi lì, nel tentativo di disorientare Francesca, ma soprattutto nel tentativo di distrarre me medesimo dal terrore che mi venne a trovare al nostro terzo mese di gravidanza.
Ma a cosa serve la Paura?
Spesso me lo sono chiesto. Non sarebbe meglio non averne? Paura, dal latino “pavire”, che sta per qualcosa del tipo: “tastare il terreno per vedere se regge”. Indubbiamente ha una certa utilità per la nostra sopravvivenza. In questo senso, attacchi di panico, ansia, ipocondria, paura della solitudine, paura del vuoto, del pieno, dei ragni, dei cani, dei piccioni (Francesca odia i Piccioni), dei vermi, della polvere ecc. dovrebbero essere tutte emozioni che ci tutelano e ci dicono di verificare la nostra tenuta e la tenuta del terreno. Per questo motivo, in assenza di terreno, la paura fa “90”, come nel caso della paura di volare. Eppure molto spesso sono soltanto altrettante gesticolazioni della psiche. Ed io sono un gesticolatore. Quindi sono un pauroso, un cagasotto, un pusillanime, un Paride che si cela dietro le mura di Troia e manda avanti gli altri. Sono talmente pauroso da avere anche paura della paura stessa e da avere paure insensate.
Mentre finivamo di mangiare quella sera nel palazzo di famiglia, un enorme parallelepipedo con stanze in numero impensabile, eravamo spensierati. Una serata che sarebbe trascorsa senza fissarsi nella memoria. Tutti sapevano che ero un cagasotto e per questo mi proteggevano. Ma non quella sera. Io ero il più piccolo di noi tre fratelli e, a volte, era necessario che mio fratello e mia sorella, praticamente tra loro coetanei, avessero il riconoscimento del loro status di fratelli maggiori. Questo stato di diritto si faceva totalitarismo se unito a quel sadismo tipico dei fratelli, se unito a quell’invidia che ci spinge ad attentare proprio alla vita dei consanguinei. Così quei due amorevoli congiunti si trasformavano, di quando in quando, in due Caini e chiedevano a mia madre, rifugiatasi in quel palazzo dopo la separazione dal suo Caino, che io mi andassi a mettere il pigiama da solo e che, sempre solo, andassi a letto prima di loro. Tremavo all’idea di dover attraversare la casa nel buio. Mi salvava soltanto il mio piano d’emergenza. Ma Caino conosce i piani del fratello e sa come disattivarli. “E non ti fermare ad aspettarci dietro la tenda del corridoio!”, coralmente tuonavano i due infami.
Ora deve essere chiaro a chi legge che la casa di cui parlo era talmente grande che la mia camera da letto si trovava a circa 100 metri dalla cucina e prevedeva che io attraversassi 7 stanze per raggiungerla. Poi ve ne erano altre tre tra questa e il bagno. Qualsiasi mostro avessi incontrato avrebbe avuto carta bianca e qualsiasi urlo avessi fatto non avrebbe raggiunto i decibel necessari.
Ma il sadismo si paga col sadismo. Mi riferisco a quello di mia madre che, talvolta, senza un motivo, ci obbligava alla vestizione notturna uno alla volta. E noi, uno alla volta, dovevamo affrontare il terrore. Ecco che rivedevo la mia paura anche negli occhi dei due infami; ma quel vago senso di vendetta non era sufficiente a mitigare il mio terrore. Io restavo, anche in quelle occasioni, il primo a dover andare e tra noi si incrociavano sguardi compassionevoli e solidali come quelli dei prigionieri di guerra che vanno al patibolo.
Se la paura ci deve salvaguardare a volte ci mette invece in serio pericolo. Ci fa sottostimare i rischi, e ce ne fa correre di maggiori. Quella volta fu una di queste. Decisi di ridurre il tempo di esposizione alla paura (tecnica di quando in quando efficace) e corsi come se fossi inseguito da un leone, senza accendere le luci e seguendo a memoria il percorso. Giunto in camera, i secondi che impiegai nel trovare l’interruttore durarono un eternità. Ma, alla fine, ce la feci. Mi stavo chiedendo come affrontare il percorso di ritorno ma non mi risposi, partii più veloce di prima.
Nel fare il percorso a memoria avevo calcolato che non vi fossero ostacoli. Del resto nella corsa di andata non ne avevo trovati. Ma il destino è sadico come Caino e fa ammorbidire una madre sadica che, intenerita, aveva detto a mio fratello di raggiungermi prima, quasi a soccorrermi. Lui, spavaldo con me, aveva, se si trovava da solo, le mie stesse paure, ma soprattutto aveva deciso di utilizzare la mia stessa tecnica quella sera: Corri senza accendere le luci riducendo il tempo di esposizione al terrore.
Ci incontrammo nell’interminabile corridoio, a metà; ma non come amici al bar, piuttosto come due treni di linea che viaggiano a pieno regime. Quando impattammo nel buio l’uno sull’altro pensai realmente a un mostro, a un trabocchetto di qualche troll, a un morso di zombie. Crollammo a terra e urlammo come se uno squalo si stesse cibando di noi. Capii che era mio fratello solo quando giunse mia madre e accese la luce. Io me la cavai con tre punti in testa e lui con un dente in meno. A quel punto osservavo mia madre al pronto soccorso. Sapevo che il suo sadismo aveva come scopo quello di dividerci per evitare che perdessimo tempo. Sapevo che questo la avvicinava al momento in cui si poteva rilassare perché eravamo andati a dormire. Sapevo tutto ma il mio sadismo vendicativo prevalse. La guardavo e godevo del fatto che non si era riuscita a liberare di noi prima, ma si era condannata a tre ore di pronto soccorso. E pensai che le stava bene. E non me ne vergognai, anzi tornai trionfante sfoggiando la mia ferita con i nonni.
Mia figlia non avrebbe avuto lo stesso trattamento. Eravamo al terzo mese della gravidanza, quasi il quarto e una cosa era certa: non avrei riservato lei lo stesso trattamento che mia madre aveva riservato a me. Qualche anno dopo fui costretto a ricredermi. Intanto la mia esposizione alla paura proseguiva e iniziavo a capire che, se si attende un figlio, ci si deve abituare a terreni sconnessi, ci si deve abituare all’idea che tastare il terreno non è un evento eccezionale e raro, quanto una quotidiana responsabilità. Nell’attesa, accendere le luci poteva essere una soluzione.
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Mi sembra evidente che venire a conoscenza di aspettare una figlia porti con se, oltre che la sorpresa, un certo sgomento. Uno sgomento che, fuori dagli eufemismi, può assumere la forma di paura, terrore e, addirittura panico. Chiaramente in un ansioso, come è il sottoscritto, la paura si bypassa e si arriva direttamente a Pan.
Il dio-capro, Pan, andava per boschi e, eccitato dalle ninfe che si lavavano al fiume, lanciava grida talmente terrifiche che, non solo le ninfe scappavano, ma lui stesso si terrorizzava nell’ascoltarsi. Quindi quando arriva Pan la fuga diventa automatica. Effettivamente una parte di me, di fronte alla gravidanza, era spinta a fuggire a gambe levate.
Personalmente sono fuggito spesso e non sempre sapendo dove rifugiarmi. Come Paride spesso mi nascondevo dentro casa, oppure dietro mio fratello che mai, e dico mai, avrebbe mancato di difendere il vigliacco che ero. Effettivamente il mio eroe preferito è Paride il vigliacco. Questo perché a me come a lui interessa Elena più della Gloria.
Da bambini stavamo spesso insieme con mio fratello, nonostante i 4 anni che ci separavano, e tante volte lo invocai a protezione. Certo io non ero un attaccabrighe, piuttosto un bambino soggetto a una serie di sfortunati eventi. Tendevo a prendere posto in luoghi dove si verificavano eventi infausti. Altre volte invece il mio istinto vendicativo mi spingeva a mettermi in situazioni pericolose, altre volte per conquistare qualcosa che mi piaceva, la mia Elena, compievo atti di dubbia correttezza.
Le mura di Troia, e il mio fratello Ettore post litteram, mi protessero anche quella volta al cinema. Non ricordo quale film eravamo andati a vedere. Eravamo una decina di ragazzi tra i miei 12 anni e i 17 di mio fratello. Io in quelle occasioni mi sentivo ingordo e volevo stare in prima fila. Capire che per vedere al meglio un film la cosa migliore è posizionarsi al centro-sala è, effettivamente, una conquista tardiva. Molti di noi fanno diverse esperienze di strabismo prima di capirlo. Io e Matteo stavamo proprio facendone una e ci staccammo dagli altri che ci schernivano per il nostro voler stare più avanti. Noi, dal canto nostro, ci sentivamo piuttosto furbi e privilegiati, potevamo quasi toccare lo schermo.
Ora sappiate che in prima fila non si può avere contezza di cosa accada dietro di noi. Quindi se durante il film sentite che qualcosa vi arriva sul collo e si infila nel colletto della vostra polo, non potete sapere chi possa essere stato a lanciarlo. Proprio quella sera, sentii un ticchettio sul collo e, esplorando, mi ritrovai nella mano un chewingum debitamente appallottolato. Dopo aver soppresso la lacrima dell’umiliazione, un fuoco mi prese ma, voltandomi, vidi solo una sala semideserta. Da una parte il gruppo dei miei amici Troiani, mio fratello, mia sorella & co, dall’altra due individui, tendenzialmente loschi, che avevo incontrato altre volte per quel paese che si ostina a farsi chiamare città di Rieti.
Bussai col gomito tra le costole di Matteo e, mostrandogli il corpo del reato, gli accennai che secondo me erano stati i due loschi individui a vituperare il mio collo. Matteo, come sempre, mi diede ragione. Lui è un impavido ma, quando eravamo soli, io e lui, io ero il capitano che disponeva di quella truppa monosoldato di nome Matteo.
Avevo deciso che a fine film sarebbe partita la controffensiva. Quindi attesi i titoli di coda, le luci e mi alzai. Intimai Matteo di fare come me. Appoggiamo le terga allo schermo e, stiracchiandomi, iniziai a distendere le braccia, come si tende un arco di fronte ai Proci. Con malcelata indifferenza scoccai il dardo e, con precisione balistica, quello stesso chewingum finì in grembo ai loschi spartani che, come se fossero stati deprivati di Elena balzarono in piedi indignati. Si guardarono intorno e, seppur era mia intenzione distogliere lo sguardo, fu proprio Pan a bloccare i miei occhi fissi su di loro. Per questo capirono che Paride ero io, che io avevo rapito Elena e, soprattutto che io avevo scoccato la freccia.
Partirono come fossero una carica dei trecento alle Termopili, tutti e due i “Trecento” animati dall’ira funesta del figlio di Peleo, quell’Achille che io non ero e non sarei mai stato. Io sono sempre stato pari desco e, da mio pari, non sapevo se fuggire a destra o a manca ma iniziai la fuga. Tra i sedili del cinema calcolai, come fossi navigatore satellitare, la via più breve per raggiungere mio fratello. Correvo e dietro me, come fosse un avatar, c’era Matteo, poi feci un cambio di tragitto avendo individuato una via più breve, raggiunsi mio fratello mentre il fiato dei cavalli dietro di me mi giungeva alle nari. Presi mio fratello di spalle e gli urlai di essere in pericolo e lui, senza chiedere nulla, si frappose tra me e loro. Li fermò intimandogli di rispettare le mura di Troia e poi diede loro udienza. Quando capì che io avevo rapito Elena mi disse che ero un imbecille ma continuò a intimare ai due loschi individui di rimanere fuori dalle mura. Fui messo al cospetto del tribunale degli amici che condannarono me e il mio scudiero Matteo. Ma nessuno ci esiliò.
I due loschi individui li rincontro oggi per le vie della città. Spesso bevono e mi sembrano frequentatori di servizi per le tossicodipendenze, ma ancora mi fanno paura. Sono i primi con cui appresi di essere un pusillanime che fugge. Magari scocca frecce. Magari colpisce il tallone di Achille. Ma fugge. Da lì parti la mia battaglia contro la trasparenza di Paride, il mio elogio alla vigliaccheria. Si perché, nel tentativo di restituirmi dignità da vigliacco quale ero, scoprii negli anni che, non solo la vigliaccheria uccide gli eroi, ma che soprattutto si sposa con Elena. E in psicoterapia questi sono gli obiettivi primari: il crollo dell’eroismo e la coniunctio con il femminile.
Poco più di 20 anni dopo quel film, avrei voluto fuggire come allora. Essere incinti mi provocava quello stesso senso di disagio di 20 anni prima. Ma oggi non c’erano Città, mura, eserciti a cui chiedere ristoro. Oggi potevo solo rimanere sul campo e, con me, la mia Elena era lì, bella, quasi come Francesca, e impavida come lei. Non riuscivo a calcolare scorciatoie, il mio navigatore non era in grado di calcolare un percorso più breve, anzi, mi intimava di restare su quel percorso. Iniziai a comprendere che la paura ci spinge alla fuga nella misura in cui ci è concessa la fuga. Ma se non c’è via di scampo, non si fugge e, cosa ancor più strana, la paura si riduce inesorabilmente. A quel punto non è eroico restare ma è convivere e partecipare a sembrare eroico. Convivo ergo sum, avrei letto circa dieci anni più tardi.
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L’eroe ci porta in terapia ma poi perisce – Quindicesima istantanea
Non so se capita anche alle donne ma, quando è in dolce attesa, un uomo tende sempre a voler capire quale specifico rapporto sessuale abbia condotto ad esito positivo. C’è una sorta di orgoglio fallico nel pensare che quella volta, a quell’ora, in quel luogo, quello spermatozoo aveva superato le barriere ritrose dell’ovulo con forza e astuzia. Quello spermatozoo diventava la summa di tutti gli eroi di una vita. Aveva l’agilità e la malleabilità di Polimar, la forza di Ercole, il coraggio di Achille, la faccia tosta di Lupin, l’intelligenza di Hawking e era visionario come Kubrick.
Secondo me questo spermatozoo era anche figlio di Pan, anche perché, non posso giurarci, ma si mosse quella volta che eravamo nel bosco.
Nonostante la nobile ed eroica stirpe, mi rimaneva il problema di come proteggere la nascitura dai pericoli del mondo, dai nemici, dalle paure? Si perché il mondo è luogo molto accogliente ma, contemporaneamente ti sputa fuori se tu non riesci a trovare il tuo genius loci. Lo sforzo per trovarlo e difenderlo ci viene richiesto da subito, dal difendere la coscetta di pollo a tavola, fino al difendersi dalle derisioni dei coetanei, così come nel valutare se la quantità di verdure nel tuo piatto sia realmente uguale a quella di tuo fratello, o se lui abbia ricevuto un trattamento di favore.
Io non sono mai stato uno che faceva a botte. Ma non sono neanche mai stato uno che scappava. Così quelle volte in cui qualcuno mi sbeffeggiava mi giravo e andavo oltre, ma quelle rare volte in cui mi aggrediva mi difendevo. Goffamente ma in modo efficace. Del resto Dio mi aveva dotato di un fisico da quindicenne già all’età di 10 anni e io uscivo dalla scuola elementare facendo la figura dell’ultraripetente. Quello stesso fisico entrava in gioco in quelle rare risse scomposte e scompostamente atterrava fanciulli che sembravano avere diversi anni in meno.
Ma il mondo ti aggredisce anche con le parole e quel giorno di mezza estate pedalavo annoiato per il centro della città. Orgoglioso del mio “Distinto” ottenuto agli esami di terza media, sfoggiavo la bici nuova acquistata con i risparmi di una vita. Quattrocentomilalire di pura tecnologia anni ’80. Un caldo torrido rendeva insopportabile la noia e il sole aveva dorato i campi di grano. I portici del Comune costituivano un buon riparo, sia per l’ombra che donavano, sia per la fontanella che elargiva acqua gratuita, la chiamavamo l’acqua del sindaco. Ero solo, ma non il solo ad aver pensato a quella fontanella e quando arrivai vidi 4 ragazzi in bici che ridevano e giocavano con quell’acqua. Decisi di andare oltre e attendere che liberassero il campo e, al tempo stesso, evitare onerosi confronti relazionali fatti di acne, puzza di ascelle e capelli tagliati sempre uguali da quello stramaledetto barbiere a cui portavi foto di tagli sempre diversi.
Tirai dritto e mi chiesi se le mie orecchie avessero ben udito quando avvertii qualcosa del tipo ”bella!!!”. Il tono sarcastico e derisorio con cui il, probabilmente, leader di quel manipolo di manigoldi, declamò quella parola, mi fece subito pensare che si riferisse alla mia nuova bici. Un moto di orgoglio nazionalista mi pervase. Non solo la mia bici era migliore della loro, ma una delle loro era la stessa mia bici. Mi intimai di mantenere la calma e di sondare meglio. Feci un altro passaggio vicino alla fontanella e il mio incedere fu accompagnato da un nuovo tonante e derisorio “Bella!!!”. Feci un ultimo passaggio che eliminò ogni dubbio. I bastardi ce l’avevano con me.
Sono un vendicativo ma non sono uno stupido. Loro erano in quattro e io avevo dalla mia solo i miei complessi. Per questo sono andato dritto e ho iniziato a osservarli di lontano, in attesa di vedere se mi avrebbero fatto dono di un’occasione di rivincita. Se fossero stati fortunati non avrei avuto quell’occasione. Ma quei 4 sciocchi non erano fortunati. Quando li vidi scendere per la ripida via che costeggia il palazzo del Comune mi appropinquai sulla sommità e, con molta discrezione, mi accorsi che avevano parcheggiato le loro bici non più di 100 metri più sotto, una accanto all’altra, per poter entrare nei bagni pubblici da cui uscivano spruzzi d’acqua. Le grida divertite e metalliche rimbalzavano come palline sulle mattonelle di ceramica ingiallita dei bagni, poi trovavano la porta d’uscita che le liberava come il cono di un grammofono, e mi irritavano maledettamente.
Pensai che la discesa mi avrebbe dato il giusto slancio. Subito dopo i bagni, infatti, c’era la risalita verso il parcheggio comunale che avrei percorso senza sforzo. Le bici si trovavano in una conca dalla forma di una rampa da skateborad, ed io ero pronto a lanciarmi.
Quella era l’occasione che non mi avrebbero dovuto dare. Partii, pedalai. Presi velocità e, arrivato in fondo, con la gamba tesa colpii la prima bici che, con effetto domino, buttò giù tutte le altre. Proseguii veloce nella salita successiva e mi fermai sulla sommità opposta. I quattro bulli continuavano a rumoreggiare e ci misero un po’ ad uscire. Io attesi, quello era il copione che avevo scritto e non potevo andar via. Quando sbucarono fuori bagnati, si accorsero e iniziarono a gridare. Qualcuno gli aveva buttato giù le bici!
Guardai dall’alto e gonfiai i polmoni. Urlai con tono di sfida e con tutta l’aria che avevo. “BELLA!!!”
Mi guardarono. Mi indicarono. Urlarono qualcosa che non compresi ma che suonava come: ti prenderemo e ti taglieremo a pezzi per mangiare il tuo cuore ancora pulsante. Ma io sapevo che per fuggire a questo destino, il trovarmi sulla sommità della salita mi dava un vantaggio. Feci il gesto dell’ombrello e iniziai a correre in direzione di casa. Mi sentivo come nella steppa, di notte, inseguito dai lupi. Sentivo il loro ululati qualche centinaia di metri dietro di me e spinsi su quei pedali come in una volata.
Arrivai a casa e entrai nell’androne per parcheggiare la bici. Appena la posai li sentii gridare e andare oltre. L’ultimo di loro, grasso e lento, passò poco dopo e io ero stupidamente di nuovo allo scoperto. Si fermò, richiamò il branco e mi ritrovai le fauci di quei 4 “canacci” che si avvicinavano bavose. A quel punto, sul limitar dell’uscio dell’androne, ricordai un incantesimo che avrebbe tenuto lontano i lupi. Presi fiato e lo declamai a gran voce:” Questa è proprietà privata”.
Quella frase li fermò e si dimostrò, come sempre a quelle età, efficace oltre ogni immaginazione. Creava uno scudo deflettore verso gli imbecilli, e noi a quell’età, eravamo tutti, irrimediabilmente imbecilli.
Ero Polimar, Kubrick, Achille, Ercole, Pan e Lupin tutto in una volta. Quello spermatozoo doveva avere quelle caratteristiche sicuramente. Avrebbe dotato mia figlia di altrettanta capacità di fronteggiare senza arroganza la paura del mondo. Avrebbe contribuito a fare di questo mondo un luogo di certo più accogliente. Non sapevo, ahimè, che la bellezza della salita all’Olimpo è proporzionale alla caduta. Più avanti avrei scoperto la fatica di far morire quell’eroe che, fedele al suo ruolo, si sarebbe rialzato tantissime volte prima di accettare la resa. Avrei scoperto come questo porti una pacificazione; avrei scoperto come mia figlia stessa mi avrebbe chiesto di non ucciderlo anzitempo. Si perché la morte dell’eroe è necessaria ma non può avvenire in qualsiasi momento. Intanto Francesca gestava, e lo stava facendo da più di tre mesi, ignara delle battaglie che stavo compiendo.
L’immaginazione è un reato che solo la terapia può contenere – Sedicesima istantanea
Se aspetti un figlio sei chiamato a una enorme responsabilità. Se sei uno psicologo che aspetta un figlio questa responsabilità aumenta.
Probabilmente nessuno psicologo lo ammetterebbe, ma i figli di uno psicologo sono anche il suo biglietto da visita. Se sono un bravo padre e un buon educatore, se sono un bravo navigatore dell’animo umano, i miei figli saranno l’immagine dell’equilibrio psicologico. “Lei sarà un ottimo padre” mi son sentito dire. E, consapevole del fatto che quella tesi avesse più che altro il carattere di una congettura e per lo più infondata, intanto ne avvertivo le enormi conseguenze sulla mia responsabilità. Se i miei figli si dimostreranno meritevoli di qualche etichetta diagnostica, come ne risentirà il mio lavoro? Questi immaginari aleggiano in un genitore psicologo e rompono le scatole notevolmente ai suoi figli. Per questo non c’è peggior genitore di uno psicologo. Freud diceva che tre erano le professioni più difficili: il genitore, l’insegnante e lo psicologo. Io avevo fatto l’insegnante e oggi facevo lo psicologo, sarei diventato genitore. Fate voi.
Il senso del dovere e di responsabilità, ci fa sentire come se stessimo guidando e vedessimo, d’improvviso, la paletta della polizia che ci intima di fermarci. Noi abbiamo tutto in regola ma il mio primo pensiero è sempre catastrofico. Sicuramente ho fatto qualcosa di male e se non lo ho fatto ci sarà un motivo qualsiasi per cui dovrò rispondere di qualcosa. Questa sensazione ci accompagnerà per tutta la vita da genitori. Per tutta la vita avevo osservato la polizia con il terrore che scoprisse le mie magagne, i miei pensieri di odio, di perversione, l’immaginazione che mia aveva condotto a delitti multipli, a violenze carnali, ad atti di impudicizia, alle truffe, ai reati. Adesso che ero padre, iniziavo ad essere soggetto a fantasie di tutti i reati di cui un padre si può macchiare, per questo la polizia mi avrebbe tenuto doppiamente sottocchio. Quindi quando uno come me incontra la polizia assume, più o meno intenzionalmente, un’aria di colpevolezza che non lascia alcun dubbio ai gendarmi.
Camminando nei vicoli di Rieti. Laureato da poco tempo, ero riuscito a infilarmi in un lavoro come facilitatore scolastico. Seguivo dei fanciulli stranieri cercando di favorire la loro integrazione scolastica e mi sentivo, per questo motivo, importante. La relazione d’aiuto si univa all’impegno sociale e all’incontro con lo straniero. Io mi ponevo come crocevia, come sintesi perfetta dell’anima. Per questo pedalavo con leggerezza su quella bici che, fedelmente, mi serviva da quasi 10 anni e che mi stava portando a scuola quella mattina. Mi ero vestito con una felpa blu con il cappuccio e avevo una borsa tracolla colore blu elettrico che avevo comprato il giorno successivo a quello in cui mi avevano proposto questo lavoro. Il tutto era pensato per sembrare il più alla mano possibile ma con una certa professionalità di fondo.
Improvvisamente sentii lo stridio di ruote che fischiavano. Erano due macchine della polizia in borghese che, senza sirene, ma comunque spianate, stavano correndo tra quei vicoli con una paletta smanacciata fuori dal finestrino e le grida per farsi largo. Mi accostai subito per cercare di liberare la stretta strada che portava alla scuola. L’auto rallentò fino a fermarsi per superarmi senza danno e in quei tre secondi sentii la radiomobile urlare cacofonicamente qualcosa del tipo: “… il rapinatore è un giovane di circa 30 anni che porta una felpa blu con cappuccio e una tracolla blu…”
Ero sceso dalla bici e tenevo il manubrio avvicinandolo al corpo perché non ostacolasse l’operato delle forze dell’ordine. Attraverso il finestrino aperto un poliziotto in borghese, con faccia tesa e trafelata, ascoltava quel messaggio e nel frattempo mi osservava per potermi superare con l’auto senza pestarmi i piedi. Non si accorse che quello descritto alla radio ero certamente io. “Stavolta mi hanno scoperto”, pensai. I nostri sguardi si incrociarono e lui mi dedicò un’occhiata paterna senza avvedersi ne della felpa ne della tracolla. Io sorrisi serioso e pensai che avesse capito che io corrispondevo in tutto e per tutto ma non avevo una faccia da rapinatore.
Andarono oltre e io raggiunsi la scuola. Entrai nel cancello e iniziai a legare la bici alla ringhiera. Mentre mi giravo per salire gli 8 gradini che portavano all’ingresso, le due macchine si fecero di nuovo vedere. Io le guardai passare di nuovo e quello stesso ispettore che prima aveva visto nei miei occhi la luce dell’onestà, stavolta si soffermo solo sulla mia sagoma. Io capii che ero fritto. Capii che, pur non avendo rapinato nessuno, dovevo svolgere il ruolo del rapinatore finché non si fossero resi conto che non c’entravo nulla. Capii che tutta la mia immaginazione doveva essere portata davanti a un giudice. Sorrisi all’ispettore come a dire: mi rendo conto che potrei sembrarvi un rapinatore, prima ho sentito la radiomobile mentre mi superavate e ora mi rendo conto…” capii che non sarei riuscito a spiegarmi in tempo e capii che quel sorriso arrivò a loro semplicemente come un’ammissione di colpa. E, in fondo io ero colpevole di aver immaginato tutto quello che avevo immaginato dalla nascita a quel momento. Mi raggiunsero e mi buttarono a terra, faccia al pavimento, mi immobilizzarono e mi iniziarono a fare domande mentre io continuavo a sorridere incredulo. Cercavo di dirgli che c’era un equivoco e intanto pensavo cosa stesse pensando la preside che era presente e cercava di aiutarmi. Mi trascinarono fuori e svuotarono a terra il contenuto della borsa mentre io cercavo di spiegare. Giunti alla macchina quella stessa radio che mi aveva condannato, pietosa, mi liberò. Tuonò un messaggio sul vero rapinatore arrestato lì vicino. L’imbarazzo negli occhi dell’ispettore mi spinse ad assumere uno sguardo paterno nei suoi confronti. Lo consolai con gli occhi, anche perché, in fondo, sapevo di avere le mie colpe, sapevo di essere un immaginatore seriale.
Soffrii di una sindrome, leggera, da stress post traumatico nella settimana successiva. Avevo una certa paura ad uscire.
A cinque anni di distanza, mi accorgo che essere un padre, mi avrebbe esposto a innumerevoli nuove possibilità di reati immaginali. In verità si aggiungeva alla polizia, la giuria della figliolanza, che mi avrebbe accusato anche di tutti i reati che accadono sulla terra, e mi avrebbe chiesto anche di rispondere dei falliti tentativi di correggerli. Intanto Francesca non si riteneva lontanamente colpevole delle sue immaginazioni. Si perché lei non si sentiva colpevole, per questo, a differenza di me non iniziò una terapia come feci io.
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Correre è un percorso sapienziale – Diciassettesima istantanea
Una gravidanza dura 9 mesi. Rigorosamente nove. Non un mese in meno altrimenti sono guai e rischi respiratori e cardiovascolari… Un mese in più e si va incontro a morte certa, sia della puerpera che del nascituro. Anzi direi che il prolungamento della gravidanza da molti meno margini di intervento di quanti non ne dia la prematurità. Un famoso psicologo di nome Groddeck affermava che il vero amore materno è l’odio che spinge la madre a liberarsi del feto, a espellere il figlio per concedergli la vita. Dunque la gravidanza è una delle metafore più pregnanti, scusate il gioco di parole, per descrivere un percorso evolutivo o sapienziale. Si devono rispettare dei tempi, senza anticipi ne procrastinazioni poiché c’è sempre una giusta condotta in un dato momento. Non è un comportamento o una scelta a essere giusta o sbagliata, ma è il fattore tempo che ne determina il valore costruttivo o distruttivo.
Quello che si fa nel primo mese di gravidanza non si fa nel secondo o nel nono. Tutto a suo tempo. Faticosissima esperienza per un ansioso come me che sapeva che, in 9 mesi, avrebbe potuto produrre fantasie catastrofiche in quantità industriali.
Io e Francesca eravamo nella coda del 4° mese, praticamente a metà. Si tratta del momento più gustoso. La tua dolce metà è prosperosa e non ancore enorme, e continua a stimolare le tue fantasie afroditiche. Le paure dell’inizio sfumano e quelle del parto sono ancora troppo lontane per incombere. Dunque sembra che tutto sia alla tua portata, che sia tutto facile e che tu, proprio tu, sia piuttosto fico a sostenere quello che stai sostenendo.
Una cosa simile succede quando vai a correre. Ora sia inteso, mi riferisco a chi pratica la corsa in maniera piuttosto continuativa, non tanto alla corsa estemporanea. Insomma dopo un po’ che vai a correre inizi a distinguere i diversi momenti di quella gravidanza agonistica. Non puoi iniziare con un ritmo alto perché devi dare tempo al corpo di adeguarsi al movimento. Devi concedere il tempo ai muscoli di scaldarsi, al cuore di accelerare e al respiro di cambiare ritmo. Come in gravidanza, esiste il “4° mese” nella corsa. Si tratta di quel momento in cui si fa esperienza dell’esperienza di flusso. E’ il momento in cui le gambe frullano senza stanchezza. Le gambe al 4° mese sembrano chiederti di spingere di più, come fossero una muta di cani da slitta. Non c’è affanno, il respiro ha trovato il suo ritmo e si respira come se stessimo camminando o a riposo. Il corpo armonicamente oscilla e gli arti danzano tra loro. La tua anima in quel momento è un tutt’uno col mondo e tu, appagato, non distingui più se sia il cosmo a donarti il respiro, o se sia tu a donarne al cosmo.
Una volta mi trovavo proprio in quel momento lì. Al 4° mese della mia corsa quotidiana. In mezzo alla campagna, su quella ciclabile deserta, data l’ora presta, e con l’aria che, se nell’inverno precedente pungeva i polmoni, in questa primavera inoltrata donava un refrigerio piacevolissimo. Intanto il sole si alzava lentamente colorando l’orizzonte monocromo.
Non era frequente, ma non impossibile, incontrare qualcuno che correva e in quelle rade occasioni ti poteva far da lepre. Intravidi quella sagoma maschile quel giorno, a un paio di centinaia di metri avanti a me. Andava di buon passo ma era evidente che non stava al 4° mese quindi sapevo che lo avrei raggiunto.
Mai cambiare ritmo, ma raggiungere la lepre col proprio passo è sempre la cosa migliore e, una volta giunto a ridosso del competitor, alzare l’avambraccio destro e fare un saluto umile e generoso che ostenti sportività. Ricordarsi di nascondere l’estrema soddisfazione di averlo superato. Così feci.
“Dove te ne vai stamattina!” inaspettatamente, mi sentii chiedere dopo aver ricevuto un contro-saluto con un eccesso di partecipazione.
Quell’inaspettato sconosciuto aprì un dialogo inopportuno, come se fossimo nel salotto di casa sua. Io, non so perché, avvertivo una certa invadenza e soprattutto mi sentivo costretto a regimentare le puledrose membra, ma lo assecondai. In genere sono il campione del mondo a liquidare i dialoghi barbosi o inopportuni. Quindi rallentai leggermente e iniziai a rispondere alle sue frasi con parole secche e brevi che non mi sottraessero fiato.
L’uomo aveva un corpo appesantito dagli anni ma ancora brillante, probabilmente non più di 50. Iniziò a fare domande che servivano semplicemente a giustificare la sua voglia di parlare. Infatti dopo ogni domanda rispondeva come se io l’avessi fatta a lui. Tutto sommato questo ben si prestava al mio bisogno di risparmiare il mio fiato. Insomma fù così che mi raccontò di essere sposato da 20 anni e di avere tre figli, di essere un libero professionista e di avere faticosamente trovato il suo equilibrio nel mondo. Venni a sapere nel medesimo modo che era di una vecchia famiglia reatina. Nobili decaduti ma solo nei titoli. Seppi che era uno psicologo e che aveva 4 fratelli, due di secondo letto del padre ma che lui si riteneva più il nono figlio dei suoi nonni. Gli piaceva la pittura e suonava diversi strumenti musicali… Poi mi raccontò un paio di aneddoti mentre io mi limitavo ad annuire e a qualche parola di consenso.
“Vedi Luca” mi disse ad un tratto “ Ci vuole tempo per fare lo slalom tra le cose nella vita, tra legalità e illegalità, tra amore e odio, tra pensiero e sentimento, tra corpo e anima, ma poi, a tratti, lo si raggiunge. Ho incontrato tanta gente demoralizzata perché pretendeva di partorire al 4° mese di gravidanza, mentre semplicemente non si concedeva il tempo giusto”
Ora, al di là della piacevole conversazione, a metà di quella frase mi accorsi che quel tono profetico era decisamente invadente e fastidioso, ma soprattutto mi accorsi che non gli avevo detto nella maniera più assoluta il mio nome. Questo mi inquietò e lui se ne avvide, tant’è che mi disse di stare tranquillo perché alcune persone conoscevano me prima che io conoscessi loro. Chiaramente questa frase non mi tranquillizzò e mi sganciai il più presto che potevo. Non farlo avrebbe significato alimentare paranoie infinite. L’uomo si accorse di questo e sorridendo mi concesse di sganciarmi.
E’ proprio l’inaspettato che non stavo considerando in quella mia gravidanza. L’inaspettato è quell’unico evento che non ero riuscito a computare nelle mie fantasticherie catastrofiche. Il 4° mese, che sia di gravidanza o che si tratti di qualsiasi altro percorso, è sempre un po’ bastardo perché è quello in cui ti illudi che tutto è sotto il tuo controllo e che nulla ti potrà scalfire. Ma resta valida l’idea che ogni illusione racchiude in se il germe della disillusione. Ogni volta che restiamo delusi ci dobbiamo sempre chiedere perché ci eravamo illusi e mai arrabbiarci con colui o colei su cui avevamo proiettato quell’immagine perfetta.
Quando incontri uno sconosciuto se lo ascolti, puoi intravedere il vostro destino.
Intanto io Francesca ci godevamo la potenza del punto di centro, del 4° mese.
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Il primo lutto non si scorda mai – Diciottesima istantanea
Eravamo ormai giunti quasi al quinto mese di gravidanza e stavamo vagheggiando che il nome Giulia fosse il più probabile. Ricordo ai lettori che le differenze di genere prevedono che, mentre per una donna il quinto mese significa ho superato il 120° giorno di gravidanza, per il padre il quinto mese ha a che fare con i 150 giorni di gravidanza compiuti. Questo genera frequenti e tensivi equivoci che vedono la madre-moglie, Francesca per me, accusare il padre-marito di non saper neppure a che punto sia la gravidanza. Da qui iniziano le accuse di negligenza paterna a cui, noi padri, siamo chiamati a rispondere, per sempre.
Vi dico semplicemente che ci trovavamo tra il 120esimo giorno di gravidanza e il 150simo. Francesca era a Parma. Ancora non convivevamo e per questo motivo io stavo a Rieti all’interno di quella che sarebbe stata la nostra prima casa. Avevamo preso in affitto un appartamento ricavato in un ex convento in cui un lungo corridoio avrebbe fatto gola al più allucinogeno dei registi horror. Stavo piantando qualche chiodo e stuccando qualche buco e ero felice, cosa per me che costituiva un evento alquanto raro data la mia indole catastrofista. E proprio quella felicità mi spinse a chiamare Francesca. Non penso che avessi qualcosa da dirle ma, soprattutto, non so cosa le avrei detto se mi avesse risposto. Probabilmente volevo solo dirle che ero felice.
Mi rispose infatti il fratello che, con voce mesta e grave, iniziò a tergiversare sul perché lei non mi stesse rispondendo al telefono.
Ora è chiaro che tra tutte le catastrofi, quella lì non l’avevo messa in conto. Un catastrofista cerca di fuggire la paura, ipotizzando tutti i possibili eventi infausti, tutto per il solo piacere di dire che “lo sapeva” che sarebbe successo, tutto per poter ostentare la sua sicumera. Di fatti non esiste uomo più impermeabile alla paura di un paranoico. Ma proprio per questo motivo la paura di qualcosa non coincide con quella cosa. La paura è il modo in cui ci poniamo verso un evento, ma l’unico realmente pauroso è quello inatteso. Quindi la paura è la prova che c’è qualcosa di inaspettato che va al di là del nostro controllo. La paura è lì a ricordarci che non siamo déi. La paranoia è, invece, il confondersi con Dio e pensare che qualsiasi proprio pensiero sia reale più della realtà.
E in quella telefonata c’era una parte di me che non voleva rinunciare ad essere simile a un dio, con la mia felicità, imperturbabilità nel fantasticare me e la mia piccola futura tribù in quel ex convento. Per questo, in modo irruento e quasi arrogante, dissi al mio futuro cognato di smetterla di spendere parole a vanvera e di andare dritto al sodo. Non so se dire a “vanvera” sia il modo giusto. La vanvera era uno strano oggetto a forma di peretta che veniva posto sulle natiche delle donne per silenziare i peti più prepotenti. Parlare a vanvera equivale a “parlare col culo” mentre Andrea, il fratello di Francesca, era estremamente cauto e premuroso. Ma il tempo che impiegava a dirmi che Francesca stava andando in ospedale con sua madre perché stava perdendo nostra figlia, era tutto il tempo in cui ero in grado di generare ulteriori catastrofi, quindi: che mi dicesse quello che avevo già compreso al momento in cui mi aveva risposto lui al posto di Francesca! E così sia!
Erano quasi le sei del pomeriggio e mentre tornavo a piedi a casa di mia madre, allora ancora casa mia, mi chiedevo cosa dovessi fare. Che si fa quando si vive un aborto e si è un uomo? Non versai una lacrima mentre camminavo e mi chiedevo anche se fosse normale. Giunto da mia madre, trovai solo mio fratello. “Non è giusto” dissi mestamente e iniziai a piangere camminando per la casa. Mio fratello non capiva, allora gli spiegai, piangente, e lui ascoltò. “Non è giusto” è la prima fase del lutto, quella del rifiuto. Non si accetta la morte del congiunto, non sia accetta la fine di un era, non si accetta che la felicità, di cui, forse, non si era neanche troppo consapevoli, non ci fosse più. Poi le varie fasi del lutto ci portano ad una elaborazione, quella che probabilmente sto facendo ancora adesso scrivendo questo breve racconto. Il lutto si dice “bianco” se non elaborato e, scrivendo, il mio lutto inizia a colorarsi.
Presi le chiavi della macchina e partii. Furono i 400 kilometri più brevi della mia vita. Piangevo da solo in macchina e dopo un paio di telefonate per avvertire a lavoro, guidai piangendo per il resto del viaggio. Dopo circa un paio d’ore, circa all’altezza del passo di Verghereto, iniziai a avvertire che le mie lacrime portavano con se una gioia, innaturale rispetto a ciò che stava accadendo. Piangevo e nelle mie lacrime, che erano state assenti almeno da tre lustri, c’era la memoria del pianto stesso, liberatorio, analitico, acqua , sale, in cui tutto scorre.
Mia figlia morendo fece dono a me delle lacrime, me le riportò come dee pacificatrici. Per questo piangevo sorridendo, e più piangevo e più sorridevo, contento di aver ritrovato quelle dee marine. Le rade telefonate dei parenti di Francesca disturbavano quel mio incontro con le lacrime, che, come amanti inaspettate, mi consolavano. Intanto Francesca partoriva il corpicino esanime della mia primogenita. Lo partoriva senza di me e così avrebbe fatto per tutti i parti successivi.
10 centimetri. Una miniatura di un piccolo essere umano col colore scuro e cianotico ma in tutto e per tutto perfetta in ogni piccola parte. Quando la toccai insieme a Francesca in quella sala adiacente alle sale parto, non sentii particolare fatica. La fatica la sentii il giorno dopo quando un’infermiera, probabilmente reduce da una notte spiacevole a causa di figli e marito, si lamentò delle perdite di sangue di Francesca. Intimai all’infermiera di essere gentile.
Lasciammo l’ospedale il giorno successivo. Tornati a casa, piangemmo insieme, io e Francesca, e stavolta piangemmo di profonda angoscia. La settimana successiva iniziò la nostra convivenza “monastica”. Quello che non ti separa ti unisce e, per ora, siamo ancora qui. L’ho immaginata, quella bambina che ci aveva scelto e all’ultimo momento ha cambiato idea, ancora oggi mi chiedo se perché non all’altezza o semplicemente non adeguati. Eppure mi ha insegnato tanto, quanto solo si può se si ha una vita per imparare.
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