Fiducia
Abbiamo appena finito di leggere il primo capitolo del romanzo psicologico in pillole di Luca Urbano Blasetti [CLICCA QUI per leggere il primo capitolo].
Leggere la prima parte è stata come salire sulle montagne russe, fatte di diversi tipi di emozioni: gioia, dolore, paura, tristezza, rabbia…
Le emozioni e le parole ci hanno condotto a percorrere con Luca i suoi ricordi di vita che si intersecavano abilmente con l’esperienza della sua prima gravidanza insieme alla moglie, Francesca.
Una storia di una figlia immaginata, ma mai nata.
Non nego che la conclusione del primo capitolo mi ha fatto scendere una piccola lacrima di commozione.
Tuttavia, ora, sono pronto a proseguire il cammino immaginale di ricordi con voi, leggendo nuovi episodi, per emozionarmi ancora ma, soprattutto, per affidarmi con fiducia e fede alle pillole di Luca Urbano Blasetti per ridurre il consumo di psicofarmaci.
Buona lettura!
In vespa con i cani
Non sempre è così, ma per me e Francesca la perdita della nostra prima figlia ha rappresentato la spinta alla convivenza. Alcuni eventi o ti separano o ti uniscono. La settimana successiva all’aborto ci ritrovammo nella nostra nuova casa, quella ricavata da un ex convento. Francesca dipingeva le pareti mentre io stavo tappezzando di rami di pesco freschi il soffitto del corridoio. Oggi non mi sognerei mai di farlo ma allora mi sentivo così originale nell’aver trovato quella soluzione, dunque l’estetica del corridoio finiva in secondo piano. O in primo. Eravamo stranamente legati, come se quel lutto avesse sancito qualcosa di eterno tra noi. Non sapevamo ancora che avremmo affrontato altre tre gravidanze, ma ci comportavamo come se invece ci avessero rivelato proprio questo, come se sapessimo che sarebbe andata così. C’era una strana fiducia, quasi confusa con la certezza nel fatto che noi saremmo diventati quello che siamo diventati.
Ma la fiducia non è un fatto gratuito spesso richiede un tempo lungo per essere coltivata, perché il terreno venga preparato, seminato, irrigato e così via. Richiede autostima, amore e crescita personale. Questo è vero nella maggior parte dei casi ad eccezione di Matteo. Matteo, quel caro amico capace di pensieri di una profondità smisurata, verbalizzati, però, come se si stesse parlando di frutta e verdura al mercato. Ecco lui è l’esempio di una fiducia aprioristica. Una fiducia nei miei confronti che ha sempre sfiorato l’imbarazzo. Io son sempre stato più grasso e bruttino mentre lui è sempre stato carino e prestante ma in quei casi in cui dovevamo fare qualcosa il leader ero io. Ero io a stabilire, in ultima analisi, se quella specifica stronzata si sarebbe fatta o meno. Lui obbediva ciecamente, con la fiducia di chi pensava che io avessi contezza di ciò che andava fatto perché mi era stato indicato da Dio in persona.
Adolescenti suonati come eravamo, quel giorno d’estate avevamo deciso di raggiunger quel “Fiume Morto” dove spesso eravamo andati da ragazzi seguendo quei nostri fratelli maggiori a pesca. Al nostro seguito lo “zio Vasco”, zio di una delle fanciulle per le quali ho speso importanti energie pur sapendo che non ci sarebbe stata assolutamente “trippa per gatti”. Ci aveva chiesto di portarlo a pesca dato che lui non aveva particolare esperienza. Io avevo visto quella come una grande opportunità di far colpo sulla nipote anche se, in cuor mio, sapevo, come un attempato giocatore d’azzardo, che stavo buttando il mio denaro inutilmente.
Per andare al fiume morto si prende quella via che passa in Valle Oracola. Costeggiando, il fiume velino ci avrebbe portato in una zona immersa nella campagna in cui, in due o tre bivi, avremmo raggiunto quel ramo dove il fiume è talmente fermo da non sembrare un fiume. Lo zio Vasco cavalcava uno scooter yamaha di quelli usciti da poco. Noi eravamo ancora la generazione dei “Si” e dei “Fifty top” i motorini più diffusi allora, ma gli scooter iniziavano a farsi vedere e la maggior parte di noi li vedeva ancora con sdegno. Io e Matteo cavalcavamo una vespa special bianca che era proprio della fanciulla in questione.
Ora se vuoi fare colpo non puoi certo titubare rispetto alla strada da fare e io non titubai, anche se non avevo per niente chiaro dove dovessimo andare di preciso. Quindi nei due o tre bivi andai a colpo sicuro. La strada bianca scorreva sotto le ruote che schizzavano via ciottoli qua e la. La scia di polvere dietro di noi non era sufficiente a nascondere lo sguardo paziente dello zio Vasco piantato sullo specchietto retrovisore della vespa. Quello sguardo diveniva sempre più, dentro di me, di compassione.
La fiducia di Matteo era smisurata e di molto superiore a quella dello zio Vasco, e di molto superiore alla mia che si spense quando la strada finì! Ma non sarebbe dovuta finire! E non sarebbe dovuta finire nell’aia di quel casale. Ci guardammo e la pazienza di zio Vasco iniziò a virare in direzione dell’irritazione. Io e Matteo farneticavamo sulla giusta direzione da prendere e, mentre lui farneticava, io non dimenticavo di girare la vespa e riprendere la via da cui eravamo venuti, anche perché in quell’aia starnazzavano troppi animali che avevano sollecitato il fervore di tre cani la cui taglia mi vedeva infastidito come una donna in un camerino di un grande magazzino.
I tre canidi non sapevano bene come muoversi. Noi eravamo tre, e a cavallo di strani oggetti. Ma tre cani fanno un branco e un branco non ha paura. Quindi iniziarono ad avvicinarsi al piccolo trotto. Ripartii con malcelata paura e ostentando una certa sicumera. Intanto lo zio Vasco si era lesto girato e allontanato. Impacciatamente e scivolando sulla ghiaia, ripartii e accelerai con vigore ma eleganza. La vespa rispose per quello che poteva, cioè poco, e questo permise ai cani quasi di raggiungerci.
Il panico ci venne a trovare all’improvviso. Prendemmo una certa velocità ma sempre insufficiente. Ci rendevamo conto di essere di corsa e sotto assedio dei tre cani, uno da una parte e due dall’altra, abbaiavano tentando di prendere nelle fauci le nostre caviglie. Ero ben felice di stare avanti e vedere che Matteo fosse il loro bersaglio primario, ma avevo pur sempre il senso di responsabilità del leader che mi spinse a dire a Matteo di dare un calcio ai cani. Lui provo a chiedere lumi e io irritato gli dissi che c’era poco da capire e che gli doveva dare un calcio. Lui non capiva quindi io, irritato oltre modo intimai con la voce del dio Odino: “dagli un calcio!”.
Fu allora che lo sentii stringere le cosce intorno alle mie natiche e lo vidi protendersi con la testa verso i cani e, preso più fiato che poté, iniziò ad urlare verso quegli ingordi bastardi : “Cazzo!!!” E poi lo ripetè più volte: “Cazzo! Cazzo! Cazzo!” come stesse sparando con un fucile a pompa, urlava “cazzate” a pieni polmoni verso quei cani, come fosse in grado di allontanarli con una formula del “Cazzo”.
Io onestamente non capivo e gli iniziai a urlare chiedendogli cosa caspita stesse facendo. Ma la paura mi divorava e quei cani non avevano abbastanza fiato per seguirci quindi riuscimmo a fuggire e sembrò che le parole urlate da Matteo avessero sortito qualche effetto.
Ci fermammo qualche minuto più avanti, lì dove quel pusillanime dello zio Vasco aveva deciso di attenderci. Fu allora che chiesi a Matteo perché mai si fosse messo a urlare parolacce ai cani e lui, placido e fedele, mi disse che glielo avevo chiesto io di farlo. “Tu mi hai detto: digli cazzo!” mi disse
A quel punto ho capito che qualsiasi cosa io avessi detto a Matteo lui l’avrebbe fatta. Non gli sarebbe importato quanto sarebbe stata ridicola e di poco senso, lui l’avrebbe fatta. E questo per il semplice motivo che lui aveva fiducia in me, una fiducia che superava qualsiasi illogicità fino a divenire fede. Lui riteneva che se io avessi detto di urlare parolacce significava che io sapevo qualcosa che a lui era sfuggito. Lui aveva fiducia in me oltre ogni possibile immaginazione.
Oggi vedo che la terapia funziona più o meno così, affonda le sue radici in una fiducia quasi cieca. I pazienti hanno una fede che si consolida nel tempo. Ma ciò che è realmente terapeutico è il momento in cui si intuisce di aver, più o meno, travisato i consigli del terapeuta, per poi accorgersi che facendo di testa propria non è poi tanto male. A quel punto , d’improvviso, si vede che il terapeuta è paziente non perché ci attende ma perché attende se medesimo, ci si accorge che l’immagine che abbiamo di lui è vera quanto dio, ossia è mero riflesso della nostra capacità di prenderci cura di noi stessi. Matteo ci mise ancora molto prima di rinunciare alle mie indicazioni e quando lo fece dovetti imparare a riprendermi cura di me senza di lui.
Comunque, quella di Matteo, era la stessa fiducia che animava me e Francesca mentre rimettevamo in ordine la nostra casa. Eravamo irrimediabilmente convinti e fiduciosi che l’immagine che avevamo di noi fosse reale a tutti gli effetti. Ci saremmo giocati tutto sul fatto che stavamo facendo la cosa giusta perché quella cosa era il nostro dio. E in quel dio avevamo una fede profonda, almeno in quel momento.
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L’accanimento a vivere la terapia. Anima animale
Ogni tanto mi tornano alla mente quei momenti in cui osservavo, sognante, il procedere della nostra gravidanza. Rivedo Francesca ballare rubiconda, rivedo il corpo in miniatura di mia figlia sullo schermo e il medico che ci sorride, rivedo la mia mano che scorre sul ventre della mamma. Poi, ritornato in me, inizio a pensare se ripartire. Sarebbe rispettoso e sensato fare di nuovo un figlio? Erano passati poco più di sei mesi da quel viaggio a Parma e io mi interrogavo in continuazione e, da psicologo, ogni domanda, come una matriosca, ne apriva altre 10. Siamo pronti? Sono Pronto? Il corpo di Francesca si è ripreso? La figlia non nata si arrabbierebbe? Che penseranno i parenti? E se perdo il lavoro? Una mattina ero particolarmente assillato da queste domande. Era una di quelle domeniche in cui il sole ti invita a uscire e il freddo a restare sotto il plaid e io, sotto quel plaid, mi interrogavo compulsivamente. Come sempre, fu Francesca a interrompere quel ciclo di pensieri quando mi disse di avere un ritardo.
Eravamo di nuovo incinti e lo eravamo già da un po’. Ecco la vita cosa è, è ciò che accade mentre ti interroghi su ciò che accadrà.
Penso che noi due eravamo l’espressione della fiducia che avevamo nel mondo e nell’immagine che avevamo di noi. Una fiducia paragonabile a quella di un cane per il padrone. Eravamo fedeli all’immagine di noi e lo eravamo perché quell’immagine era “padrone”, ci nutriva, ci carezzava, ci coccolava, giocava con noi, ci voleva bene.
Io, in verità, non ho mai simpatizzato per gli animali, ho sempre faticato a pensarli con un anima e ho sempre faticato a intraprendere una relazione con chi non avesse il dono della parola. Strano a dirsi per uno psicologo ma così è. Ma ci fu una cane, una meticcia di media taglia che mi avrebbe insegnato qualcosa in merito solo qualche anno dopo.
Non sapevo che giunti che saremmo stati ad avere due figli, io e Francesca avremmo transitato una crisi imponente. In quel periodo cercherò di dissipare i malumori scaricando sulla corsa, a piedi e in bici, le rabbie di una coppia che fatica a fare i conti col fatto che l’idea che ci eravamo fatti l’uno dell’altra, fosse così distante da ciò che realmente eravamo. Non riusciremo più a immaginarci. Per questo, quasi ogni giorno, andrò in bici con gli amici. E quasi ogni giorno passerò davanti a un casale rosso mattone, immerso tra gli alberi dove questa cagnetta meticcia ci abbaierà con tono marcante il territorio e, allo stesso tempo, amichevolmente salutante per la contentezza di rivederci.
Quel Sabato mattina, percorrendo quella stessa strada, non incontreremo Musetta (questo il nome che avevamo scelto per la cagnetta), lei non c’era.
Quando avrò modo dovrò raccontare questa storia ai miei figli, una volta che saranno abbastanza grandi per capirne le implicazioni profonde. Ma a quel punto la racconterò al passato, più o meno così.
“Chissà dov’è Musetta?” disse uno di noi ciclodipendenti in odore di separazione. Poi proseguimmo. Un paio di kilometri dopo vedemmo una sagoma in fondo alla strada e più ci avvicinavamo e più ci sembrava familiare. Musetta è una cagnetta con la schiena a pelo scuro, che cangia andando verso il ventre fino al bianco ma passando per un color nocciola che richiamava il colore degli occhi.
La raggiungemmo e rimanemmo piuttosto impressionati. La cagnetta era riversa su un fianco, le gambe rigide e tese, la lingua su un lato e con tremori evidenti. Rimasi così dispiaciuto da volermene fregare. Per questo riportai alla memoria tutti quei film dove un freddo coprotagonista mette fine alla vita di un animale o di un commilitone per ridurre il più possibile la sofferenza.
Mentre pensavo a questo uno di noi sottolineò che era stata probabilmente avvelenata. E che magari il veleno non era neanche destinato a lei. Nelle campagne spesso i contadini pensano di fare giustizia col veleno nei confronti di cani che scorrazzano. Vero che Musetta girava per la campagna come fosse casa sua, ma questo non la rendeva certo colpevole al punto di meritare una condanna a morte.
Ma io non ce la facevo a vederla così. “Che facciamo?” disse Fabio, la nostra guida ciclistica. “Ora dovremmo solo vedere chi di noi ha il coraggio di dargli una palata e mettere fine alle sue sofferenze” Dissi. E mi ascoltai al tempo stesso chiedendomi chi mai avesse detto quella frase tanto sciagurata. Dopo un istante di silenzio iniziai a raccogliere le critiche timide dei miei amici. Ma io ero anche leader di quel gruppo. Non so perché lo fossi. Del resto il leader viene scelto e non si nomina. Quindi, in qualità di leader, le critiche erano accompagnate anche da un certo grado di rispetto. Io, dal canto mio, mi vergognavo perché ancora ammiccavo a quel freddo giustiziere dei film.
Musetta, a quel punto, non era più di tanto al centro della nostra attenzione. Io ero sceso dalla bici e passeggiavo risolutamente in direzione del casale lì vicino ma, ad un tratto la vidi spuntare tra le mie gambe. Non camminava, non ci riusciva. Più che altro assecondava i tremori dovuti al veleno che agiva a livello neurologico compiendo piccoli saltelli che la avevano portata fino a me. Era ormai tra le mie gambe, tremante e col muso all’in su, in cerca del mio sguardo.
Sembrava aver capito che io ero colui che aveva il potere di decidere della sua vita o della sua morte. Aveva compreso che ero il leader e che doveva rivolgersi a me per smuovere quel plotone di bikers. Mi Guardò e mi parlò. Mi disse che non voleva morire, mi disse che se la avessi aiutata ci avrebbe messo tutto il suo impegno per guarire, mi disse di smettere di guardare film dove si sopprimono anzitempo persone o animali per valorizzare la freddezza, mi disse di ascoltare il calore dell’anima. Mi disse tutto questo. Io la guardai e la ascoltai. Era la prima volta che parlavo ad un animale e che lo capivo così bene.
Mi girai verso Fabio, con la stessa risolutezza di quel giustiziere gli dissi ci svuotare il suo zaino e mettere le sue cose nel mio. Lo zaino di Fabio aveva delle cinghie esterne che potevano fungere da imbracatura. Fu lì che misi Musetta per mettermela in spalla. Quindi, dissi a Fabio e Paolo di seguirmi mentre invitai gli altri a proseguire il giro. Pedalavamo di buona lena e, pedalando, telefonai col cellulare a Enrico, quel vecchio compagno di scuola che era diventato veterinario. Lui mi disse di portargli subito la cagnetta e, quando gli dissi che ero in bici, mi raggiunse rapidamente in auto.
Musetta rimase sotto le cure di Enrico per tre giorni. Era sotto osservazione e gradualmente smaltì il veleno e si riprese. Non mi fece pagare nulla per quel pronto intervento. Io ripresi Musetta e la riportai a casa. Cosi come i padroni non si erano chiesti nulla della scomparsa, non si chiesero nulla della sua ricomparsa.
Oggi quando passo di lì Musetta non mi aspetta, mi corre incontro e mi abbaia come sempre, ma io adesso ascolto e capisco che non marca il territorio, anche perché anche io ho smesso di marcarlo con lei. Mi parla e mi dice qualcosa del tipo: “Ciao coglionazzo, che bello rivederti!”. In terapia Musetta oggi è sempre accanto a me. Mi ammonisce quando non mi accorgo che qualcuno non è pronto a morire e rimane in silenzio quando qualcuno ha invece bisogno di farlo; è lì a ricordarmi che il mistero della vita esige il rispetto di non disporne. Musetta da cane si accaniva a vivere, ma i suoi silenzi in terapia eludono quell’accanimento e mi chiamano a imprese emotive titaniche.
Ma torniamo a un passato più noto. Io e Francesca eravamo incinti di nuovo. Per la seconda volta. Fedeli come cagnolini alla vita e al mondo. Pensavamo che non ci fosse via di scampo ma la vita ci ha stupito e ci preparavo a questa seconda avventura con rinnovato entusiasmo. Sotto un soffitto fatto di rami di pesco, ce l’avremmo messa tutta.
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La fiducia che ti consenti di dare è quella che ti vedi tornare? Voci di corridoio dicono questo. In una sorta di pensiero che galleggia tra il magico e il new age, si è imposta questa idea. In genere mi son trovato a sorriderne ma di quando in quando mi è capitato di sperimentarne la potenza. Anche nel caso di questa seconda gravidanza. Francesca era incinta per la seconda volta. Non sapevamo chi sarebbe nato o nata, sapevamo solo che non avrebbe avuto il nome che avevamo pensato per la figlia che, all’ultimo momento, aveva cambiato idea e aveva deciso di non nascere. Ci aveva scelto come genitori e poi aveva cambiato idea.
Oggi, a 43 anni suonati, mi viene voglia di raccontare al me di 33 anni, di come proprio lei, la mia secondogenita, 10 anni dopo, mi avrebbe aiutato ad avere fiducia nel mondo. Quella fiducia senza la quale non avremmo pensato di avere una seconda gravidanza.
Era un lunedì quella mattina. Ero sulla ciclabile e facevo l’attività di mindfullness più efficace al mondo, correre. Sentivo che le gambe avevano gli anni in più e mi indispettivo per questo. Quando si corre ciò che svuota la mente è l’ascolto del corpo e la possibilità di pensare ai mille motivi per cui superi qualcuno, oppure qualcuno ti supera.
Quando vidi quel ragazzo di circa 10 anni meno di me mi iniziai a raccontare che si sbattesse troppo nello sport, che avesse preso integratori o altro, oppure che stesse correndo per molti meno chilometri di me. Insomma quando ti superano cerchi tutte le scuse per non ammettere che chi ti supera è più in forma di te. MA a volte fai di più. A volte non accetti l’onta e devi trovare una scusa per rallentarlo. Lo chiamai con un leggero gesto del gomito proprio mentre era in fase di sorpasso. Un cenno a cui si accompagno un arco della punta del mio naso che finiva proprio sul suo polso.
“Sono le 6 e 45” Mi disse lui tonico e senza il minimo cenno di affanno.
Iniziai poi a raccontargli che 10 anni dopo sarebbe andato in un parco di divertimenti con i miei tre figli. Gli dissi che io ero lui 10 anni dopo e che avevamo tre figli. L’ultimo di 1 anno e gli altri due di 9 e 10 anni. La prima si sarebbe chiamata Solidia, nome scelto perché era quello di mia nonna, perché non era quello della prima figlia, e perché rimandava al sole; solo tardivamente decisi che il significato fosse “giornata della terra” Sol-Dia.
Io ho sempre sofferto i parchi di divertimenti. Quando partivamo con i cugini c’era solo una cosa che superava la loro eccitazione, ossia il mio imbarazzo per la paura che avevo per qualsiasi attrazione che superasse i 20 km orari. Quella paura mi condannava ad una giornata di eterne esortazioni a partecipare e sguardi tristemente rassegnati nel vedermi seduto ad aspettare che le urla si dissipassero dopo aver fatto le montagne russe. Vivevo nel terrore e nella certezza che qualcosa sarebbe potuto andare storto. Questo mi raccontò quel ragazzo mentre io mi fermavo per bere alla fontanella e recuperare il fiato.
Deglutii. Grande sospiro, Sguardo all’Orologio. Mani sulle ginocchia. Poi continuai a raccontarmi che, quando partimmo con mia moglie e i miei figli per il parco giochi, avrei provato quel lo stesso imbarazzo di adolescente ma con, in più, il senso di disonore di un padre di 43 anni pusillanime. Gli raccontai poi che si sarebbe messo a scherzare con figli e moglie dicendo che si sarebbe occupato di portare sulle attrazioni il mio ultimo nato.
Insomma l’immagine del mezzogiorno di quella giornata era quella di me che tenevo il passeggino con l’ultimo nato, il mio secondo nato Carlo accanto a me, tutti e tre col naso all’in su, ammirati nel vedere le grida divertite di madre e figlia su delle montagne russe con un numero di giri della morte che superava il numero delle vite di un gatto. Tre pusillanimi guerrieri si leccavano le ferite mentre le donne di famiglia, impavide, affrontavano Pan.
Nel corso della giornata questa scena si è ripetuta più volte e per ogni attrazione in cui le donne gridavano divertite con i maschi in contemplazione, il mio amor proprio scendeva di una tacca. A fine giornata poco mi consolava l’aver fatto attrazioni di media difficoltà, ero affranto e mi consolavo facendo il padre con mio figlio Carlo, portandolo sui tronchi, o su altre attrazioni che scimmiottavano quelle vere, quelle da uomini duri. Francesca ad un tratto mi disse che avrebbe portato Giorgio, l’ultimo cucciolo, nel villaggio di Peppa Pig, io invece avrei accontentato gli altri due portandoli di nuovo sui tronchi.
Io da ragazzo avevo paura anche dei tronchi e mi sembrava una certa conquista fare quell’attrazione, se non fosse stato per il fatto che, accanto ai tronchi, c’erano quelle stesse montagne russe che con i loro giri della morte e avvitamenti, mi avevano già umiliato 25 anni e più prima. Erano le 18.
Il parco si stava svuotando: mia figlia Solidia aveva rinunciato a coinvolgermi nelle attrazioni più paurose. File non ce ne erano più. Mi voltai verso Solidia e le dissi semplicemente: “Amore portami sulle montagne russe”. Lei si girò, sgrano quegli occhi verde mare all’inverosimile. “Davvero papà?!” mi chiese incredula. “Davvero” risposi.
Chiedemmo a Carlo di aspettarci e corremmo. Il primo trenino fu il nostro. Salimmo. Ci bloccarono le spalle. Mi mancò il fiato. Ebbi una crisi claustrofobica. Partì il trenino. Tlack, tlack, Tlack. E poi iniziò la discesa. Urlai ridendo, come avevano fatto le donne fino a quel momento. Non mi ero mai sentito così tanto donna prima di allora. Su, giù, destra, sinistra. Capolinea. Siamo scesi e l’attrazione ha chiuso i battenti. Carlo aveva lo Sguardo avvilito la sotto, ma a quel punto prevalse l’orgoglio e mi sentii al di sopra. Solidia mi permise di fare quello che non volevo fare da circa tre decadi.
Questo mi raccontò l’uomo che inaspettatamente mi disturbò durante la corsa e mi disse di aver fiducia nei figli perché mi avrebbero insegnato e dato molto più di quello che sarei stato in grado io di dare loro.
Questo mi raccontai invitandomi a ricordare che la maggior parte delle cose che ci danno inquietudine, col tempo, svaporano e diventano ridicole. Riderai a crepapelle dei tuoi traumi gli dissi. A quel punto lui andò oltre, io non avevo più fiato. Lui ne aveva ancora da vendere.
Io e Francesca, dunque, non eravamo incinti soltanto di Solidia ma anche del mio sguardo sgranato che sa meravigliarsi del mondo. Ma anche del mio coraggio nell’affrontare tutto ciò che mi fa paura. Ma anche della Solidia che era il riflesso di un parte di me.
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La terapia Sui fichi, le more e altri frutti
La fiducia, dunque, è un ingrediente irrinunciabile per fare figli, e per molte altre cose. Se non c’è prevale quel raziocinio di Apollo che ti spinge a dire che prima devi avere un lavoro, una casa, una macchina, la stabilità, la salute, uno skateboard, un set di pentole in acciaio inox, una bici, una bici per il bimbo, la pensione, i nonni, la badante per i nonni, trigliceridi bassi, le unghie fatte, la depilazione totale, più tempo libero, meno problemi di lavoro… Insomma con la ragione ci saremmo estinti. È, invece, la fiducia che permette la sopravvivenza della specie. Ma non una fiducia generica, ma quella cosmica e psicologica, quella secondo cui si vive nella serenità del fatto che ciò che deve accadere accadrà. I greci la chiamavano anche Ananke, dea della necessità. Poi qualcuno la chiamata anima mundi e qualcuno fede psicologica.
Io la chiamo Rubare i fichi dagli alberi. Oggi abbiamo una strana assenza di fiducia nel cosmo e nella natura. Una sorta di sindrome da supermercato: se qualcosa non sta nel supermercato potrebbe essere nocivo. Una mela sull’albero ci spinge a pensare se possa farci male, mentre al supermercato quella stessa mela la riteniamo salubre. Il supermercato diventa la cartina al tornasole di ciò che è lecito introdurre in bocca. Un frutteto, invece, viene facilmente associato al pericolo alimentare.
Mio padre mi insegnò la fiducia nella natura più volte. Quando eravamo con lui nei weekend (il resto della settimana stavamo con mia madre) spesso lui ci proponeva una serie di riti iniziatici. Prerogativa notoriamente dei padri. Quindi quando eravamo in macchina, o per andare al mare, o per la campagna, spesso lo sentivamo trasecolare e gridare vivacemente una qualche bonaria imprecazione tra il reatino e il romano. Poi, inchiodata la macchina con un timido stridio delle gomme, si girava mostrandoci le orbite che non riuscivano più a contenere i suoi occhi infiammati di stupore. Quello stesso sguardo lo incontravo quando si arrabbiava ma mi accorgevo subito quando, invece, era dovuto ai fichi.
Quella volta era un venerdì ed eravamo in partenza per il mare. Percorrevamo la cicolana, strada uggiosa e triste che riuscivamo a sostenere solo con la promessa del mare. La radio ululava le note di Disco Samba dei Two Man Sound e, con quello stesso ritmo, quella volta, mio padre ululò qualcosa. Inchiodò, strabuzzò, si girò e disse: ” Ragazzi guardate che c’è”. Noi ci guardavamo senza capire cosa ci fosse di bello sulla cicolana. Lui indicava un albero e io osservavo il dito senza accorgermi dei fichi. Quel fico si trovava sul limitare tra ciò che è demanio e ciò che è privata proprietà. Era lì, fermo, solenne, sembrava voler dire “Io non appartengo se non a me stesso”. Mio padre, vi si specchiò e iniziò a Correre e, senza aspettarci, ci intimava di seguirlo.
Io già allora mi chiedevo se i fichi fossero buoni, o se lo fosse l’Uva, le mele o ancor più le More. Me lo chiedevo sia perché i fichi non mi hanno mai estasiato, sia perché avevo timore che la frutta fosse velenosa in assenza di operazioni alchemiche precise che la rendessero commestibile, operazioni che solo il personale del supermercato conosceva. Ma papà non aveva dubbi e mi prendeva sulle spalle per arrivare più in alto. Io ero correo di quel furto e le rare volte che un presunto proprietario ci rincorreva, ero anche la scusa e l’attenuante maggiore. Mio padre ha sempre avuto un’altissima gratitudine nella natura prodiga di frutti. Io ero terrorizzato all’dea che qualcuno ci scoprisse oppure dagli effetti velenosi di quegli oggetti che invece di stare nel banco di un supermercato erano sugli alberi. Ma allora percepivo solo in parte che questa mia era una follia, quindi mangiavo a rischio della vita.
Oggi mi ritrovo a fare lo stesso. Quando vedo un albero di frutti. Specie con le more che, oltre che gratuite, notoriamente non hanno un proprietario. Le colgo con i miei figli e le mangiamo. Eppure c’è una parte di me che tituba. Mi chiedo se mai ci potrebbero far male. Ma, oggi come allora, mi suicido e mangio. Anzi ho anche imparato che i frutti migliori sono quelli col verme. Si perché il verme non è scemo, sceglie i più dolci. Quindi lo sfratto e, sciacallamente, mi mangio il frutto pulendo dove il verme si era messo a banchettare. Oggi i miei figli mi guardano strabuzzare e mi compatiscono, mi seguono, mangiano e si chiedono se quel mio entusiasmo sia normale. Non sanno che quell’isteria ortofrutticola è dovuta al fatto che mi sto mettendo nelle mani di Madre Terra. A rischio della mia stessa vita.
Ecco. Di nuovo un’idea mi balena. Il mio lavoro, quello di terapeuta, è la riedizione ritmata di questo rito, il rito di rubare i frutti dagli alberi. La terapia ripete il rito dell’affidarsi alla madre Terra. La terapia è affidarsi ai frutti che la terra da col rischio che siano velenosi. Ogni volta che un paziente entra nella stanza dell’analisi si assume questo rischio, quello di morire a causa del nutrimento. Se il terapeuta non ha lo stesso entusiasmo dei padri che trovano alberi ricolmi di frutti, sarà difficile che riuscirà a convincere il paziente a cibarsene.
Strana questa nostra era dove temiamo che la natura ci avveleni. Un’era in cui la frutta nasce sui banconi e non sui rami. Strana era in cui manchiamo di fiducia. Quella stessa fiducia che ci spinge a far figli anche se siamo squattrinati, quella stessa fiducia che ci fa intraprendere imprese eroiche e fare scoperte grandiose. Quella stessa fiducia che salvava me e Francesca da Angerona, la dea romana dell’angoscia, e che ci spingeva a renderci disponibili a nuove gestazioni. Questa disponibilità ci vedeva scelti da Solidia, la nostra secondogenita che sarebbe nata di lì a qualche mese e che, un giorno, mi avrebbe compatito vedendomi correre improvvisamente al grido: “More!”
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La minestra di fave. La psicoterapia è trasformazione
Sarò capace di fare il padre? Sarò all’altezza?
La fiducia che avevo in me non poteva neanche lontanamente avvicinarsi alla fiducia che avevo in mia Figlia, e ne avevo già da molto prima della sua nascita. Quando rimanemmo incinti per la seconda volta, io, ma penso di poter parlare anche a nome di Francesca, eravamo certi che nostra figlia sarebbe stata sana, vivace, intelligente, capace, affettuosa, intraprendente, bella ma non vanitosa, intuitiva, serena… Insomma, avevamo una profonda fiducia nelle sue capacità. Non altrettanto potrei dire rispetto alla fiducia nelle nostre capacità.
Quando hai un figlio passi tutta la vita a scalpellare il monolitico pezzo di marmo perfetto che gli avevi messo addosso, per scoprire, come Michelangelo, l’opera d’arte che vi è contenuta. E per scoprire che quell’opera non c’entra niente con quel perfetto monolite. Ogni colpo di martello è un colpo al cuore per il genitore. Ogni scheggia di quel marmo rivela chi è veramente tuo figlio e, immancabilmente rivela chi sei. Alla fine c’è una scultura e un mucchio di schegge e tu sai di non essere mai stato scultoreo. La misura di quanto differiamo dai nostri genitori, è la misura di quanto ci siamo individuati. La misura di quanto gli somigliamo è anche la misura delle nostre maschere.
Ma come sarei riuscito a fare il padre? Avrei saputo rimproverare, abbracciare, incoraggiare, curiosare, sbeffeggiare, ammirare…? Insomma tutti i verbi che vi vengono in mente andrebbero bene. Un genitore deve avere la capacità a declinarli tutti, ma a me è sempre risultato particolarmente importante lo stare a “tavola”. Sarei riuscito a insegnare ai figli come stare a tavola? Mangia tutto, stai composto, non giocare. Ce l’avrei fatta senza diventare ottuso? Si perché il codice del galateo è decisamente ottuso.
Ero dall’altra parte del cucchiaio quel mercoledì sera, la parte in cui te lo vedi arrivare colmo di cibo. Come tutti i mercoledì, mia madre era tornata da una giornata di lavoro più arrabbiata degli altri giorni. Noi non sapevamo il perché e le nostre ipotesi in merito alla sua incazzatura venivano da lei immancabilmente smontate. Il mercoledì sembrava avesse fatto un briefing con Monsignor della Casa, l’ottuso autore delle regole da tenere a tavola. Soltanto che io imparai a salvarmi da quella ottusità, e questo soltanto grazie alla mia grande voracità.
Mia madre ci faceva mangiare la sera come se fossimo al militare. Era una donna che si era separata da mio padre poco prima che nascessi e si era trovata costretta a tornare dai nonni che lei stessa aveva ripudiato per amore di quel “figlio di geometra” che poi la tradì. Quindi noi dovevamo mangiare prima e rapidamente, per non disturbare gli altri con cui lei aveva già contratto il debito di essere stata aiutata, ma anche per non disturbare lei che lavorava tutti i giorni, ma anche perché mio padre era stato decisamente uno stronzo. E noi avevamo ereditato una parte di colpa.
Quindi quando ci sedevamo, Io, Chiara e Gustavo, i miei fratelli, avevamo il terrore di chiedere cosa ci fosse per cena. Il solo chiedere prevedeva un’ammenda di doppia razione. Ma sia inteso la doppia razione era ammenda riferibile solo a quegli alimenti che potevano risultare orribili nel sapore. Quegli alimenti di cui, da bambino, ti chiedi perché mai un adulto vada al supermercato e scelga di comprare proprio quelli. Le fave per esempio.
In tarda età ho imparato ad apprezzarne l’aspetto rituale nel mangiarle col pecorino sgranandole a fine pasto. Ho imparato il loro valore come immagine e simbolo di trasformazione. Ho imparato come facessero da contorno alla primavera e preludessero l’estate. Ma hanno continuato a piacermi poco.
Quella sera non era un mercoledì per fortuna, era un Giovedi e, invece degli gnocchi, eccole troneggiare in quella terrina di coccio marrone che le rendeva ancora più sgarbate. Il verde smeraldino della loro tenuta fresca, aveva, dopo la cottura, lasciato spazio a quel grigio-verde cinereo che ricordava il centro di un livido. Il brodo rifletteva solo il grigio, e il verde rimaneva un ricordo. Col verde se ne andavano le speranze nostre che sceglievamo, di volta in volta, come districarci da quella tortura. Ognuno una tecnica… Mio fratello spavaldamente le iniziava a mettere in bocca. Il primo boccone è facile, metterlo tra le fauci è un attimo e, non avendo più il ricordo del sapore dall’ultima primavera, ti dai il permesso anche di masticarle. Le fave erano come un parto, solo dimenticando le sensazioni avute, si decide di farlo di nuovo. Mio fratello già al secondo boccone si mostrava meno spavaldo, ma la sua tecnica consisteva nel mangiare e lasciare che la fava, fattasi purea, indugiasse sulla lingua finché questa, la lingua, saturasse la capacità delle papille di percepire il sapore. Questa tecnica consentiva di mangiarne solo una alla volta e richiedeva un tempo infinito. Mia sorella non era da meno. Lei iniziava ad avere smorfie da rigurgito alla sola vista del baccello. Quando metteva in bocca l’infausto legume il rischio che vomitasse era altissimo e mia madre diventava ancor più feroce. Quindi Chiara mangiava con un solo obiettivo: trovare il modo in cui le fave transitassero per l’esofago senza titillare il riflesso da vomito. Le facce che faceva erano impressionanti, sembrava come di vedere un pezzo di pongo mentre lo accartocci tra le mani, ma solo dopo averlo messo sul termosifone.
E io? Come gestivo quella Dachau alimentare? Era un Giovedì, e il Giovedì può succedere qualsiasi cosa. Il giovedì avvengono le trasformazioni. Puoi sperimentare nuove tecniche e nuove strategie. Quella sera mia madre era accanto a me e io mi sentivo come il “Soldato palla di lardo” nel film di Kubrick. Mi porse il primo cucchiaio e io, senza pensare, feci l’opposto di ciò che avrei voluto. Ricordai qualche documentario sulle sule piediazzurri, degli uccelli monogami e con le zampe di un blu stupendo. Dunque decisi di imitare il pulcino. Spalancai la bocca. Orientai le fauci verso l’alto fino a mettere in asse il cavo orale con la gola e con la punta del cucchiaio. Allargai la gola come quando imitavo Pavarotti e, una volta che gli infami frutti dei morti erano nella mia bocca, le ingollavo giù come una foca che ingoia pesci. Mi accorsi, d’improvviso, che in quel modo potevo evitare che le fave toccassero la mia lingua (da sempre impiegavo tecniche opposte a quelle di mio fratello) e riuscii a farlo fino a che il piatto non fu pulito. Mia madre scambiò quella per voracità, anche se i suoi complimenti mi suggerivano che sapeva che le fave non mi piacevano.
Trionfai e uscii dalla cucina gonfio in petto, mentre mia sorella si continuava ad accartocciare e mio fratello stava alla terza fava. Il tutto con un contorno di grida metalliche che, come nella camerata dei marines, rimbalzavano come cazzotti sulle orecchie dei malcapitati. Io, intanto, il “soldato palla di lardo” stavolta ero stato migliore di tutti. Ma non perché avessi fatto felice mamma ma perché l’avevo fregata. Il sadismo di mia madre è sempre stato secondo alla mia mercurialità, parola che in lingua comune suona come “paraculite”. Le fave sono simbolo di trasformazione e io mi sentivo piuttosto trasformato. Eccola la terapia. Il luogo in cui si mangiano cibi che eviteremmo. Il luogo in cui si digeriscono i cibi che non avremmo voluto mangiare. Si, la terapia è il luogo in cui tutti i cibi che per noi hanno un sapore pessimo, rivelano tutto il loro potere di trasformazione.
Altrettanto ci sentivamo i e la mia dolce metà nella attesa di mia figlia. Ma lei, mia figlia, avrebbe dovuto sviluppare il più possibile quella stessa capacità di eludere le mie attese, pur continuando a farmi credere di non averle disattese. Quella capacità la avrebbe salvata. La sua difformità la avrei vissuta come deformità. Ma più un figlio è deforme e più si salva dalle iperboli dei genitori. Unica cosa di cui ero certo è che un giorno mi avrebbe soffiato via, io come schegge di quel marmo avevo elusa la sua forma, un giorno lei mi avrebbe restituito al vento per restituirsi al mondo.
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La gravidanza procedeva e eravamo in Aprile quando la ginecologa si impaurì e ci impaurì. Succede ormai di frequente. I medici si impauriscono per una possibile malattia che potremmo avere. Ma in verità hanno paura che gli facciamo causa. Tutto dipende dal pessimo rapporto che abbiamo oggi con la morte. Penso che prima di essere un fatto culturale, sia un fatto molto personale. Io ho un pessimo rapporto con la morte. La rifiuto, la rinnego, guardo altrove. Un tempo, o forse in questo tempo ma per qualcun altro che non sono io, la morte era parte stessa della vita. Addirittura in alcune tribù il morituro si avvedeva della morte imminente e si allontanava.
Oggi si fugge e chi muore di vecchiaia lo fa spesso in ospedale in condizioni tutt’altro che confortevoli per la morte. Oggi ci fissiamo nelle prime due fasi del lutto che la psicologia chiama: Negazione e Rabbia. Non accettiamo la perdita e ci arrabbiamo, e il nostro primo bersaglio sono i medici. Dovevano salvarci. Dovevano eludere la morte. Ci devono fare dono dell’immortalità, nostra e di tutti i congiunti sino al terzo grado. Per questo i medici hanno come primo obiettivo difendersi dai pazienti e dai loro familiari. Sembra piuttosto interessante questa cosa. Ma, mi chiedo, quale potrebbe essere la qualità della cura se il primo obiettivo è difendersi da colui che deve essere curato. Sono uno psicoterapeuta e questo aspetto risulta fondamentale.
Nel mio lavoro mi trovo in continuazione in questa situazione. Anche in terapia si muore, ossia si vive una trasformazione, una metamorfosi, ma questa non piace ai familiari che diventano i contro-terapeuti, accusano il terapeuta di fare lavaggi del cervello o di instillare idee malsane. Insomma tutta la paura che abbiamo della morte è sostanzialmente la paura che abbiamo di cambiare. Questa stessa paura indusse la ginecologa a difendersi da noi preventivamente e, ascoltato il racconto di come Francesca avesse perso la prima figlia, ci disse subito, con voce sommessa, fintamente partecipe e recitando la parte del medico empatico, che si sarebbe dovuto fare un cerchiaggio.
-Cioè?- Chiedemmo tutti e due e il medico donna ci raccontò qualcosa sul fare un fiocchetto al collo dell’utero per evitare che il nascituro esca troppo presto. Io ho immediatamente visualizzato un uovo di pasqua con fiocco blu e carta dorata. Così mi appariva l’utero di Francesca e con questa immagine andammo in ospedale per fare questa operazione dal vago sapore pasquale. Poi si presentò in tutta la sua invasività… Intanto va fatta in anestesia totale, o per lo meno la nostra ginecologa così la volle fare, in secondo luogo metteva a rischio una gravidanza in una misura di certo inferiore al rischio naturale, ma superiore a quanto fossimo in grado di sopportare.
Entrati. Ricovero. Letto. Lenzuola ospedale. Sorrido. Sorride. Paura. Cena ospedale. Odore cena. Sorrido. Bacio. Sorride. Dice- vai-. Tapparelle. Chiudo. Vado. Torno. Saluto. Bacio. Chiamata. Infermiere. Lettiga. Operazione cerchiaggio. Esce. Dorme. Si sveglia. Umore buono. Bacio. Mano. Ore. Mangia. Vomita. Bagno. Tutto bene. Casa. Finalmente.
Quel fiocchetto blu ci avrebbe accompagnato per il resto della gravidanza e mi indusse a pensieri così strani fino al punto di eliminare qualsiasi fantasia afroditica dai miei immaginari. Quel fiocco blu diveniva ghigliottina e io non mi sono mai sentito così poco francese.
Ancora oggi mio chiedo se fosse necessario, se quel medico donna avesse potuto prendersi cura di noi con le parole piuttosto che con i fiocchi. Poi inizio a pensare a quanto siamo medici di noi stessi. A quanta paura abbiamo di morire e ci difendiamo dalla morte. Perché cambiare ci risulta tanto difficile?
Poi mi pacifico. Nessuno può cambiare ciò che è. Siamo destinati ad essere per sempre chi siamo e sorrido quando qualcuno mi dice che sono insopportabile. Si perché ogni volta gli altri da me pensano che io mi stia simpatico. Gli altri non sanno che la misura con cui non mi sopportano è la mia stessa misura. Ma tra me e il mondo c’è una profonda differenza, ossia che il mondo può non frequentarmi mentre io sono costretto a vivere con me.
Questo per dire che non dobbiamo cambiare il “me” ma il modo in cui stiamo con quel “me”.
Questo pensiero mi accompagna e con mia grande meraviglia sarà proprio la sorpresa di quell’uovo dal fiocco blu a parlarmi di questo. Solidia, placidamente, alla soglia del suo undicesimo compleanno mi confidò proprio che quello che non piaceva agli altri di lei, non piaceva neanche a lei. “Solo che io me lo devo tenere, papà, loro no!” mi disse e si fece di nuovo specchio.
Paura di volare. Psicodinamica di un fobico
Insomma. Francesca aveva un fiocco blu nel collo dell’utero, un fiocco donato dal cerchiaggio. Lui, il fiocco, avrebbe salvato mia figlia che si stava già salvando da se. Infatti, intanto, Solidia cresceva dormiente nel ventre della sua mamma, senza curarsi di quel fiocco che avrebbe ritrovato nella divisa delle scuole elementari poco più di sei anni dopo. E anche in quell’occasione si sarebbe dimostrata, dopo un primo momento di luna di miele con quel simbolo di spersonalizzazione, noncurante del fiocco fin quando, stanca, non ci avrebbe chiesto di poterlo levare. Ma questo, come già detto, sarebbe avvenuto circa sei anni dopo.
In tutto questo trambusto da tutela di gravidanze io non potevo non continuare a oscillare tra estremi di euforia per il diventare padre e estremi di terrore per il non riuscire a farlo. Del resto la nostra prima figlia se ne era andata senza preavviso al quinto mese e, pur riconoscendomi un’indole fobica, in questo caso i miei timori erano giustificati. Il trauma passato inficiava sulle mie emozioni presenti e Freud ne sarebbe stato felice. E se anche io so che la parola “trauma” definisce solo lo stile con cui racconto la mia vita, non riesco a cambiare stile ma solo a riconoscerlo. Insomma sapere di avere una fobia non ci esime dal provare terrore.
Ma vedete un fobico non ha semplicemente paura. Mi piace dire che la paura è un “pavire”, ossia un tastare il terreno per vedere se tiene. E la paura segue una certa logica di causa effetto, come quella che Freud suggerisce nelle sue teorizzazioni sul trauma. Se un cane mi abbaia ho paura, se ricevo una minaccia, ho paura, se vedo un precipizio ho paura, se l’auto sbanda ho paura. Ho paura di un evento che risulta ragionevolmente probabile in base alla mia esperienza pregressa. Quindi i miei ricordi li uso come strumenti di previsione e la paura è l’emersione di un ricordo di sofferenza, di qualche natura, ad avvertirmi che è stato chiamato da situazioni e immagini esterne che hanno un certo grado di somiglianza con lui.
Perfetto, comprensibile e plausibile. Ma un fobico non ragiona così. Un fobico sfugge al meccanicismo e potremmo dire che, così come una persona impaurita sta alla fisica classica, un fobico sta alla fisica quantistica. Inverte l’ordine delle cose e mette l’effetto a produrre cause. Un fobico ragiona sulla sua auto e inizia a pensare che potrebbe sbandare, inizia finanche a desiderare che lo faccia. Perché un fobico gode all’idea di essere lui a produrre gli eventi. Anzi questo è proprio il suo scopo. Un fobico non osserva il cane, l’auto o il precipizio. Un fobico è invaso direttamente da quell’immagine e da tutti i suoi contenuti simbolici. Un fobico non verifica quanto un evento o un oggetto della realtà somigli al ricordo di un trauma, un fobico si ostina e spende tutte le sue energie affinché gli oggetti reali somiglino ai suoi ricordi. Un fobico è uno psicotico, ossia una persona con un eccesso di psiche e, in tal senso ha accesso diretto al mondo delle idee e degli archetipi. Quindi se un fobico vi dice ho paura di volare, risulta assolutamente inutile iniziare a fargli l’elenco dei motivi per cui gli aerei sono i mezzi più sicuri, del modo in cui funzionano e in cui è impossibile che cadano, perché gli aerei di cui lui ha la fobia cadono eccome! O almeno si spera lo facciano, ma soprattutto contengono in loro almeno altre 15 fobie… claustrofobia, fobia sociale, fobia di cibo avvelenato, fobia terrorismo, ecc. Insomma un fobico non ha paura, è soltanto fuori di testa. E in una certa qual misura tutti lo siamo, e per nostra fortuna, altrimenti non ci sarebbe l’immaginazione.
Eccomi sono un fobico e c’è una strana forza che mi spinge a riflettere su tutti gli eventi più infausti che avrebbero potuto ricondurmi nuovamente a esperienze brutte di gravidanza. Proprio oggi che sto salendo su un aereo diretto a Parigi. E’ il 4 Ottobre 2018 e Solidia sta compiendo proprio oggi il suo undicesimo genetliaco. La mia malcelata fobia elude gli sguardi dei miei, oggi, tre figli, ma non inganna Francesca che sa che il mio voler tenere in braccio l’ultimo nato non è una premura verso di lei, ma un modo per placare gli immaginari fobici dentro di me. Effettivamente fare il padre mi ha sempre aiutato a placare la “paura di Mostri”. Ma ecco. Si apre il Gate, e proprio il mio ultimo nato ci da la priorità all’ingresso. Entro e vedo questi 100 posti stipati nella carlinga. Avanzo trovo il mio e vedo gli oblò così piccoli. Mi siedo, osservo chi viaggia con me. Li vedo entrare e sembrano una folla infinita. I bagagli a mano diventano pietre pesanti che aggiungono peso e levano spazio. Poi il mio sguardo si posa sulle hostess, con i loro sorrisi da pubblicità del dentifricio sbiancante , quasi a dirmi che ho sbagliato vita perché la loro è l’unica vera felicità e, paranoicamente, ho un solo pensiero: “ non mi fido, non comprerò il vostro stramaledetto dentifricio!” La panoramica prosegue, guardo il fondo dell’aereo e vedo i carrelli porta vivande. Tutti immancabilmente segnati. L’usura sugli angoli mi racconta di come abbiano sbattuto a destra e a manca, di come tutte le volte in cui quello stesso aereo è precipitato loro, i carrelli, siano finiti in faccia alle persone e, ancora, mi raccontano di come oggi, fedeli al loro ruolo, come soldati insigniti di medaglie all’onor militare, continuino a servire la compagnia aerea con dedizione . Perché? Perché qui sorrisi? Lo sguardo delle hostess è, in verità, tutt’altro che rassicurante, anche perché non c’è nulla di più terrificante dello sguardo di una persona che ti vuole rassicurare quando ha la tua stessa paura. Si capisce subito che non ci credono neanche loro e che il loro sguardo è finto. Se è finto due sono le ipotesi. La prima è che non sono soddisfatte del lavoro che hanno scelto. La seconda è che moriremo tutti.
Allora. Vi ricordo che l’ipotesi più probabile è sempre quella che mi coinvolge in un ruolo primario o di protagonista, questa è la legge che guida le mie fobie, anche perché è l’unica legge che garantisce la sopravvivenza dell’immaginazione. Mentre l’ipotesi più improbabile è quella in cui “IO” sono una semplice comparsa o non compaio affatto. Un fobico è sempre prima di tutto un narcisista nel senso comune del temine (nel senso comune anche perché ad oggi nessuno riesce ancora a capire e a definire sensatamente il narcisismo). Quindi, quando al decollo per Parigi incrocio lo sguardo delle Hostess mi è del tutto chiaro che saremo morti tutti.
Ora cosa direste a un fobico il cui unico pensiero è di essere il centro del mondo? Gli andate a dire che gli aerei non cadono e che vanno avanti e indietro tutti i giorni? Cioè quello che fareste è dirgli che lui non è il centro del mondo? Cioè lo uccidereste voi direttamente? Se fate questo avete perso in partenza. La sua fobia è del tutto necessaria alla sua sopravvivenza quindi non vi curate di lui, o meglio curatevi di lui ma senza convincerlo di nulla. C’è un’unica cosa che ucciderebbe un fobico, sapere che quel giorno non accadrà nulla.
In più un fobico attinge direttamente dal mondo delle immagini per fare le sue elucubrazioni sulla realtà. Questo significa che la paura che prova non risponde alla logica della realtà ma a quella dei sogni. Per questo mi sono messo a scrivere in aereo. Dopo aver ceduto il mio primogenito che aveva dormito, sapiente su di me, alle braccia della mamma, apro il pc e scrivo di getto questa pillola. Il desk illumina il mio viso e, radente, quella stessa luce rimbalza sulla pillola di tavor che l’ecuadoregno accanto ame ingolla avidamente. Invece io scrivo. Ed ecco che le immagini e le fobie iniziano a danzare e che il loro impatto sul mio corpo si riduce. Le mani smettono di sudare, il cuore rallenta, la testa si alleggerisce. Non c’è farmaco migliore della scrittura. Prende le immagini, le onora e, nel loro trionfo, queste, le immagini ,iniziano a coccolarci. Poi chiudo il Pc e durante la discesa tutto torna come prima. Atterriamo, tutto a posto, ma per fortuna la prossima volta, finalmente, precipiterò.
Eccoci, Io e Francesca, 11 anni prima di quel volo, in una certa misura rassicurati da quel fiocco, quello del cerchiaggio appena vissuto in ospedale, che riduceva di molto il rischio di perdere nuovamente un figlio. Ma al tempo stesso non liberati da immaginari e fantasie su nostra figlia proprio perché le immagini non si assoggettano mai al nostro bisogno di controllarle. Un fiocco non è sufficiente a regimentarle e noi, lieti e pensosi, continuavamo a prepararci alla venuta di Solidia, seppur con spiriti opposti. Francesca perennemente ottimista e io immancabilmente, irrimediabilmente, paurosamente fobico. Eppure anche in quei momenti in cui dominava lei, la paura, contemporaneamente non si riusciva a levare di torno fiducia che continuava a stalkerizzarla.
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