Sorpresa!
Come ogni domenica, continua l’appuntamento settimanale con il romanzo in pillole del dott. Luca Urbano Blasetti, e questa non è una sorpresa ormai.
La sorpresa, tuttavia, sarà il tema centrale di queste prossime istantanee di parole del romanzo in pillole.
Ci sorprendiamo per l’inatteso, ma ciò che è inatteso per noi, non lo è per l’anima. Così il sorprendente, poco dopo, si mostra vitale e necessario. Noi non lo attendiamo, ma lui ci cerca.
Paura di volare, una brava madre sa dire le bugie – Sesta istantanea
Guidavo sul grande viale della capitale, con gli storni assordanti che coprivano i clacson. Eravamo incinti e questo non poteva che aprire il rubinetto dell’immaginazione. Un rubinetto che, nel caso del sottoscritto, non poteva che riempire una vasca di potenziali eventi terribilmente atroci. Generalmente quando mi trovo di fronte a situazioni imponenti della mia vita tendo ad avere un atteggiamento vagamente pessimista. Una bellissima sorpresa è per me una enorme fatica da affrontare. La bellezza non mi è visibile fin quando non scema il senso di sopraffazione legato all’inganno che la sorpresa contiene. In molti mi rimproverano il mio catastrofismo, ma non comprendono che non sono io a costruire storie, ma sono le storie che mi vengono a trovare. Le parole mi parlano.
Anche in questo caso stavo per essere parlato da possibili catastrofi. Come su di un aereo in avaria con le assistenti di volo che sorridono di panico, cercando di far si che tu non capisca che tutto è finito, resto seduto alla guida dell’auto cercando di tranquillizzare i passeggeri. Mia Madre osservava le assistenti di volo con lo stesso piglio. Sapeva che tanto stavano dicendo bugie e che non ti avrebbero mai detto di disperarti, anche se è opportuno. Era il 21 luglio del 1975 quando era partita con la sorella Maria per andare a Brescia. Amalia, appena 24enne, portava in grembo l’ultimo dei tre figli (me), concepito con uno sciagurato figlio di ragioniere. A causa di quel Pasquale aveva perso la stima dei suoi genitori e aveva abbandonato, cacciata come dall’Eden, il palazzo di famiglia. Ora andava a Brescia per partorirmi lontano da quel vile (così lo avrebbe definito nei giorni in cui era di buon umore) che le aveva comminato uno scherzetto non da poco innamorandosi di una giovane donna più mite rispetto a quanto non fosse lei. Almeno così pensava mio padre fin quando la”mite” non lo lasciò a sua volta.
Osservavo mia madre dal grembo. Il suo sguardo era a tratti fisso sul finestrino ma, molto più spesso, concentrato sulla hostess a sinistra. Mia Madre in aereo ha sempre assunto l’atteggiamento del genitore che insegna a guidare la macchina ai figli. Così ogni più piccolo movimento sull’aeromobile era motivo di macchinosi calcoli che le permettessero di valutare il rischio di catastrofe imminente. Solo sull’aereo io e mia madre eravamo identici mentre, una volta scesi, lei smetteva di vivere nell’ansia da catastrofe, io continuavo inesorabilmente a immaginarne a volontà.
Dunque sull’aereo ero ben felice di vederla così attenta e preoccupata, così simile a me. Ne ero felice perché la misura in cui lei mi somigliava era la misura in cui io potevo non somigliarmi (solo anni dopo capii che questo era il senso del principio di esclusione di Pauli). I suoi pensieri spaziavano e convergevano al tempo stesso. Un calo di potenza del motore era il segnale che saremmo precipitati. Una hostess che si alzava e andava al bagno significava che saremmo precipitati e che lei, quella stramaledetta bugiarda della hostess, andava in bagno per vomitare dalla paura e non farsi vedere dai passeggeri. Quella stessa hostess seduta significava che saremmo precipitati. Se si fosse allacciata la cintura saremmo precipitati velocemente e con dolore. Se avesse presso il telefono di bordo o se avesse detto qualcosa all’orecchio della collega, o se fosse andata in cabina, significava che saremmo precipitati, rispettivamente, telefonando, spettegolando, o flirtando col capitano. In qualsiasi caso, saremmo precipitati. E questa era una certezza piuttosto rassicurante. Sembra che una madre sappia che prima o poi si precipita e, come un assistente di volo, ci nasconde questa verità facendocela leggere nei suoi occhi. Io osservavo la mia hostess, quella madre tesa e, spavaldamente, le dicevo di stare tranquilla. Ma appena si distraeva un attimo, e non so se lo facesse perché mi avesse ascoltato, ma mi piaceva di pensare che fosse così, ero io a sentire un terrore immondo. A quel punto iniziavo a pregare che tornasse a preoccuparsi lei delle hostess, per liberare me. Fluttuavo nel liquido amniotico e osservavo quella donna distratta e compresi, precocemente direi, cosa è una madre, ossia è lo specchio in azione di tutte le tue emozioni fin quando non sei tu a diventare il suo specchio.
Demetra è tra le dee la madre per eccellenza. Impazzisce e corre per tutta la Tessaglia quando la figlia Kore viene rapita. Impazzisce e con lei anche la figlia ma poi tornano in loro. Si perché madre e figlio sono l’uno lo specchio dell’altra ma se per caso lo specchio non riflette alcuna immagine, allora, l’uno e l’altra, si terrorizzano. Poi ci si stanca di stare davanti allo specchio e si agisce.
Intanto Amalia era lì. Fuggiva da chi l’aveva ferita, vilipesa, abusata. Lei era piena d’amore per un uomo che, vergognandosi, la lasciò con tre figli senza vergogna. Ed io la osservavo. Sempre dal grembo. Ostentava lo sguardo fiero dell’amazzone. Vedevo lo scudo, l’arco, la freccia e il seno mancante. Pronta alla pugna sia verso quell’uomo disgraziato che verso la famiglia d’origine che la riaccoglieva con disonore. Sapeva di dover dire che avevano ragione i suoi genitori ma non lo avrebbe mai ammesso.
Intanto sua sorella Maria, divisa tra il dispiacere e il godimento (quello di poter essere sorella e figlia maggiore di riferimento), leggeva “A sangue Freddo” quel romanzo di Truman Capote che anni dopo mi avrebbe regalato. Io le osservavo, quelle donne forti che si tenevano per mano senza sfiorarsi e che mi hanno voluto molto bene. Di lì a poco sarei nato.
Chissà se mio figlio mi stava guardando dal grembo della madre che, seduta accanto a me in macchina, sembrava attendere ancora una mia reazione. Certo io, da padre, non potevo dire bugie, iniziavo a intuire di essere condannato a dire sempre la verità e, stupidamente, pensavo a questo compito come il più difficile. Poi mi sarei ravveduto. Anni dopo avrei compreso quanto dire le bugie fosse molto più faticoso e onorevole, come solo una madre può esserlo, del dire la verità. Con sullo sfondo questi pensieri, davanti agli occhi mi scorrevano tutte le sequenze di film in cui una donna dice al compagno di essere incinta. Cercai di recuperare da quel repertorio la performance più felice da proporre a Francesca come risposta. Computavo veloce le sequenze che, grammofonicamente, si accavallavano facendosi tappeto all’altro film, quello di tutte le catastrofi possibili nei successivi 9 mesi che mancavano alla lieto evento. Lieto perché chiude le porte all’immaginazione e ci butta per terra, nella realtà. Sistemai lo specchietto laterale e poi il retrovisore, anche se erano già in asse, e, d’improvviso, mi vidi. Occhi negli occhi, attento, teso e vigile e conobbi mia madre proprio in un giorno in cui era assente.
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Sapere di aspettare un figlio può avere effetti decisamente diversi a seconda di che tipo si è. Io sono un ansioso, ossessivo, compulsivo, con una tendenza all’ideazione paranoide, particolarmente sensibile ed empatico, deciso e risoluto. In me, in ogni occasione, immediatamente, devono essere soddisfatti, tutti, contemporaneamente, questi tratti di personalità. La realtà, quella concreta, viene sempre violentata e stravolta. Ognuno di noi lo fa e Lei, la Realtà materiale, si presta a farsi Gea, madre gentile e amorevole, che si trasforma per giustificare i nostri racconti. Gea diventa persecutrice per contenerci nella rabbia, diventa ripetitiva per aiutare le nostre ossessioni, imprevedibile per giustificare la nostra ansia, trasformabile per rispondere alla nostra risolutezza. Personalmente ho vituperato Gea e la Realtà che, solo a tratti, mi apparsa per quello che è, ossia molto gentilmente orientata a fare il suo corso senza cagarmi.
Dunque. L’avvento di un figlio giustificava la mia ansia in quanto mi chiamava a una responsabilità e mi obbligava a volgere lo sguardo al futuro. Questo sguardo mi obbligava a passare in rassegna ossessivamente, e senza soluzione di continuità, tutti i possibili eventi avversi. Ecco che mia moglie avrebbe potuto ricevere un colpo al ventre a causa dell’auto che ci avrebbe tamponato, oppure saremmo arrivati sani e salvi a casa per poi mangiare del mascarpone con il botulino che avrebbe annientato lei, il nascituro e la gatta che aspetta i micetti. Oppure sarebbe potuta arrivare a termine ma perire nel momento in cui l’ambulanza la stava portando in ospedale, oppure giungere in ospedale ma trovare tutti i medici in sciopero. La compulsione va avanti con idee persecutorie del tutto plausibili come, ad esempio, il fatto che siete tutti d’accordo per farmi perdere il figlio e vedere che reazione ho, dato che sono il soggetto di un esperimento mondiale e intergalattico per la valutazione dello stress post-traumatico. Una simile idea mi tortura e rassicura al contempo. Si perché, sarà pur vero che il mondo ce l’ha con me, ma è anche vero che, se così è, il mondo è concentrato su di me. Meglio una tortura all’indifferenza direbbe il puer, mentre il vecchio saggio ammonisce e prova a far intuire la bellezza del non essere pensati.
Dopo la rassegna degli eventi avversi avverto tutte, e dico tutte, le emozioni del mondo, comprese quelle del nascituro. In una proiezione che mette i miei neuroni specchio a dura prova, anche se lo specchio non c’è ancora. Ed, Infine, la risolutezza si mostra nella sua forma più sofferente. Devo organizzare tutto, la stanza, il seggiolone, il lettino, l’asilo, i vestitini, il ciuccio, i seni di mia moglie, le pappe, la scorta di pannolini, il girello, le tecniche per liberare una trachea occlusa, oppure come evitar che mio figlio, mentre faremo la spesa (sicuramente di lì a qualche anno, ma meglio essere previdenti e iniziare a pensarci) buchi con le dita le confezioni di carne.
Penso sia importante porre l’attenzione su questo aspetto, anche perché mi consente di distrarmi da questa ruminazione di pensieri catastrofici. Si. Porterò il bambino al supermercato, magari con i fratelli e li vedrò litigare per i biscotti da scegliere.
Chiara e Gustavo, da bravi fratelli maggiori, discutevano per chi dovesse guidare il carrello quel giorno. E io cercavo di godere tra i due litiganti. Attesi che nostra madre aveva sedato la rissosa diatriba per mezzo di minacce che sfioravano privazioni alla “Papillon”, per poi restare assorto, in contemplazione delle mie stesse attese che germogliavano, vane, figlie della speranza che mia madre volgesse lo sguardo in direzione di dolciumi vari o altre schifezze che avrei voluto sfoggiare a scuola durante la ricreazione il giorno seguente. Ma le attese arrivavano a fioritura perché mia madre non avrebbe mai comprato le merendine al cioccolato. E non perché fosse contraria al cibo industriale, ma solo perché non erano prodotti di cui credesse vi fosse l’esistenza. Il suo salutismo era tutto nella sua ignoranza consumistica. Noi a scuola andavamo con pane e maionese, il tutto incartato nella pellicola in modo che, dopo esser giunta a maturazione, la merenda a scuola assumesse un vago color uranio impoverito. Adoravo pane e maionese, anche se abbatteva definitivamente le mie, già esigue, possibilità di poter risultare accattivante agli occhi dei miei compagni. Dopo faticose ricerche del lembo della pellicola, lunghe al punto di farmi ritrovare con una imbarazzante salivazione, scartavo il panino che si scioglieva in mano per poi squagliarsi in bocca. E, mentre i miei compagni sgranavano gli occhi schifati, quel panino, e quindi mia madre, mi sollevava dall’imbarazzo della salivazione, conducendomi all’imbarazzo di una lingua che si dimenava nel cemento. Ma torniamo al supermercato. Camminavamo per le corsie e ero motivato a osservare il packaging colorato delle merende che, d’un sol colpo, mi avrebbero liberato dalla vergogna e consegnato il rispetto dei compagni. Invece collezionavo frustrazioni per i “no” ripetuti di mia madre. Sia inteso, non è mica vero che lei proferiva parole monosillabiche come un “no”. Piuttosto ero io che, allucinatoriamente, le sentivo infrangersi sulle pareti del mio orecchio interno per poi carambolare nella scatola cranica con rimbombi sordi. Ottundimento e frustrazione mi tenevano per mano e mi stringevano al punto che, una volta raggiunto il banco delle carni, ero in una trance dissociativa. Erano tempi in cui la carne era un bene di lusso e quindi si spendeva un tempo notevole a decidere e scegliere quale taglio ci si volesse concedere.
Era lì che il cumulo delle repressioni trovava il suo sfogo. In trance sfioravo le confezioni di carne con il dito. Premevo leggermente e segnavo la pellicola che iniziava ad avere un’idea delle mie impronte digitali. Eros mi veniva a trovare, ma non affondavo subito. Sceglievo il taglio migliore e godevo nelle toccate progressive. La liscia pellicola cedeva sotto la pressione del mio dito e, come donna vogliosa con seni turgidi, fremeva nell’attesa che le mie dita affondassero di più. Dioniso a quel punto faceva capolino, quasi divorando quel povero amoretto di Eros e io, sotto la guida orgiastica del dio liberatore, indugiavo ancora perché nell’indugiare potevo immaginare ciò che i sensi non mi avrebbero restituito del tutto. Infine affondavo il dito e bucavo la pellicola. Defloravo quei vassoio di carne e godevo, rigonfio di sorpresa, della fredda carne.
Ecco tuonare mia madre che, sempre speranzosa di avere dei figli invidiabili, mi redarguiva. “Non bucare le confezioni Luchino!”. Io indietreggiavo e mi imbarazzavo, quasi fossi certo che lei avesse intuito le profonde implicazioni erotiche di quel gesto.
Ora stavo per diventare padre e mi chiedevo come avrei gestito le “deflorazioni da supermercato nella corsia delle carni” del nascituro. Come avrei vissuto l’Eros e come lo sarebbe venuto a trovare Dioniso. Da circa 17 minuti avevo appreso di aspettare un figlio, e già mi trovavo a circa 10 anni di distanza in avanti. Mi resi conto che l’Eros contenuto in quel ricordo era la miglior cura per la mio essere ansioso, ossessivo, compulsivo e con una tendenza all’ideazione paranoide. Si perché quel dio, indebitamente assimilato all’amore cortese e romantico, è invece semplicemente la spinta ad agire. E l’agire richiede l’intervento liberatorio di Dioniso. Il fare ci libera della psicotica inflazione dell’immaginazione e questa, l’immaginazione ci libera dalla freddezza del fare connettendoci col mondo. Come io mi ero liberato del mondo e di mia madre, altrettanto avrebbe fatto mio figlio con me, bucando la pellicola delle confezioni della carne. Così il fare e l’immaginare si sposano donandoci la celestiale esperienza di ciò che è terreno.
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Erano passati un paio di mesi da quella gita a Roma. Da due mesi sapevamo di aspettare un figlio ma ancora non sapevamo se fosse maschio o femmina. Non avevo preferenze, o almeno credevo di non averne. Aspettavo solo che mi venisse a trovare chi ci aveva scelto come genitori. Mi chiedevo spesso, e ad alta voce, secondo quale criterio quel bambino ci avesse scelto e come mai non si fosse ravveduto della sua scelta. Non ero il miglior genitore sulla piazza ma forse ero il genitore necessario, quello che avrebbe potuto essere la sua massima aspirazione e, al tempo stesso, la causa di tutti i suoi fallimenti. E guai a me se non mi fossi reso disponibile come causa. Compresi che un genitore diventa la causa della sofferenza dei figli proprio quando non si rende disponibile ad essere la causa della sofferenza dei propri figli, si, ricordo bene, e quando accadde subito un’idea si mise in coda: se è vero che, da figli, lo scegliere i genitori ci restituisce in mano l’onore e l’onere del decidere chi siamo, da genitori questo è solo un modo per levarci oneri e onori. “Zitto e fai il tuo dovere” mi rimbombò in testa questa frase con la stessa forza della voce di un generale che conduce la sua armata.
Eravamo da mia Sorella quella sera. Chiara è una donna fragile, indossa il costume da amazzone e quando entri in casa sua senti il suo grido di battaglia che, a tratti, somiglia a un lamento di dolore. Quel dolore che non le ha permesso di andare in guerra con le amazzoni. Quella stessa guerra la mia amata Francesca la aveva intrapresa da poco meno di 30 anni e da dieci ero entrato tra le fila dei suoi nemici. Mi amava nella misura in cui il combattermi le dava senso. E più acquistava senso la sua vita e più intensamente mi combatteva alacremente e senza soluzione di continuità.
“Francè!…” tuonava mia sorella verso di noi coi suoi ricci ribelli “…Te stai a ingrassà!” continuava, e poi, con una delicatezza inaspettata, quasi in antitesi con quei toni da casa di ringhiera, forse a voler riparare qualcosa che trapelava nella sua aggressività, eccola chiederci le giacche e accoglierci carinamente. Già sulla porta era stato declamato il riassunto delle regole della nostra relazione. E’ impressionante quante cose riusciamo a comunicarci in una frazione di secondo. Lecito e illecito, licenze, territori, possibilità, gerarchie, identità. Una volta entrati in casa di mia sorella i pattern di comportamento opportuno già erano evidenti per tutti. E tutti li avevano ratificati. Anni dopo mi sarei accorto che quella comunicazione sulla soglia, in quello spazio che è terra di nessuno, ove sembra di poter dire tutto, sarebbe stato uno spazio cruciale nella mia attività di psicoterapeuta.
Effettivamente Francesca aveva preso qualche chilo. “S’era ingrassata” ma in un modo squisito. La osservavo ballare quella sera e ero incantato dai seni leggermente rigonfi, dal viso arrotondato, dalle labbra carnose, dalle gote vagamente arrossate che, insieme ai lineamenti del viso ormai orfani di tutti i loro spigoli, iniziavano a ricordare il viso di una bambola di porcellana. Un uomo inizia ad avere il suo primo cortocircuito in queste occasioni. La madre dei suoi figli, sacra e inviolabile, coincide con le forme erotiche più appetitose. Edipo fa capolino ma poi si congeda.
Non ero il solo a notarlo e mentre i maschi osservavano di soppiatto, le donne esplicitavano il tutto con complimenti sinceramente invidiosi. Quella bellezza era condivisa e, non so perché, non avevo nessuna intenzione di renderla una proprietà privata. Anzi volevo che tutti ne godessero come quando si lascia un libro sulla metro per fare book sharing.
Non ho mai lasciato un libro sulla metro e sono sempre stato geloso dei libri. La loro appartenenza a me non era solo una mia prerogativa ma anche una volontà dei libri stessi. Francesca, invece, non mi destinava altrettanta fedeltà.
Il volume 1 del Trattato di Psicologia Analitica si dimostrò, invece, di essere fedele oltre ogni immaginazione.
Mi rendo conto che per i più questo tomo non significa nulla. Ma per uno specializzando in psicologia junghiana sarebbe come perdere il vangelo manoscritto direttamente da uno degli evangelisti, firmato da Cristo in persona e col sangue della sua corona, il tutto dopo averlo letto lui stesso dalla croce. Si, avete ragione, strana razza gli junghiani, generano più miti di quelli che scoprono. In verità nessuno mi aveva avvisato che poi sarei stato un eretico che se ne sarebbe fregato, e con disprezzo, del vangelo.
Insomma, in quel tempo, non lo trovavo più e pensavo, in cuor mio, che Jung in persona, da lassù, mi osservasse con disapprovazione. Chiesi a Francesca se lo avesse visto ma lei stancamente alzava gli occhi al cielo, come un ateo farebbe di fronte a Fatima che appare ai pastorelli. Cercai, ribaltai, esplorai e, infine rinunciai. “Quel libro ha messo le gambe ed è fuggito diamine!”. Questo pensai. Passò una settimana e provai in macchina. Cercai, ribaltai, esplorai e, infine rinunciai. “Dove cazzo l’ho messo?”. Questo pensai. Passarono altri quattro giorni e pensai di averlo lasciato alla scuola di specializzazione. Andai, cercai, ribaltai, esplorai e, infine, rinunciai. Mi interrogai ossessivamente su dove avrei potuto lasciarlo, su dove il me che lo aveva poggiato lo avrebbe poggiato. Iniziai a litigare con quell’individuo imbecille senza Dio che aveva lasciato il libro in un posto che non conoscevo. La lotta tra noi due, tra chi perde e chi cerca, era ormai senza fine. Poi, arrivò colui che sedò questa rissa intrapsichica e ci portò il verbo: “È passato quasi un mese quindi siedi e prova a ripercorrere lentamente i tuoi gesti, dall’ultima volta che lo hai avuto tra le mani” Placidamente mi dissi ad alta voce queste parole. A volte funziona e cosi feci. E invece… Nulla.
Poi, dopo 42 giorni di annose ricerche, mentre stavo preparando una salsa tzatziki, mi apparve un’immagine, come lacrima da statuetta di Madonna, miracolosa. Eccomi. Me sullo scooter. 42 giorni prima. Tornavo dalla scuola di specializzazione. Mettevo Jung nel bauletto dello scooter. Non lo avevo tolto da lì! Ma nel bauletto avevo già cercato. Quindi? Non c’è dubbio, il libro è uscito dal bauletto in qualche modo! Mi soffermai e l’immagine si ingravidava di dettagli. Ecco che riaffiorò alla mente l’immagine di me sul mio scooter. Sono a circa 6 km da Rieti e mi vedo superare da una utilitaria bianca in cui ci sono tre donne di tre età diverse, una sorta di Klimt autostradale. Mi osservano basite tutte e tre. In quegli 6 occhi sgranati osservo il casco che rende ancor più piccole le mie già non generose spalle. E mentre mi osservavo mi chiedo, si mi chiedo ancora oggi, perché mai dovessero rompere le scatole. Ma questo pensiero dura il tempo del sorpasso. Poi le immagini si legano come una catena e mentre prendo un acino mi ritrovo tutto il grappolo. Lo osservo e in ogni acino c’è il me che raccoglie le chiavi di fretta prima di partire, il me che chiude male il baluletto e cosi via, fino al me che, ancora che prima di vedere quelle klimtesche facce attonite aveva sentito un contraccolpo del bauletto a causa del solito dosso che, ai 6 km da Rieti, era ed è vanto della sapiente ingegneria civile italiana.
Eureka! Il libro è caduto sulla superstrada! E le donne lo hanno schivato con la macchina! Mi alzo, Corro, metto il casco, fanculo ho le spalle piccole, metto in moto, metto in direzione della superstrada e giungo nel chilometro in cui avevo subito il sorpasso, il sesto da Rieti. Eccolo! Lo vedo. Il tomo, vituperato e squarciato dalle intemperie e dagli pneumatici. Lacerato in pezzi sparsi a bordo strada. Freno, scendo, ne raccolgo i resti stesi su un paio di centinaia di metri, un po’ al di là e un pò al di qua del guardrail. Scendo inferamente dal bordo della strada fino al fango che la incornicia. Per ogni pezzo raccolto ne sopraggiunge un altro poco più in là. Poi risalgo e continuo quell’opera straziante sull’asfalto. Le pagine abrase sembrano aver occhi piangenti e io, colpevole, li rimetto insieme come chi cerca di ridare vita a un figlio morente. Lo porto in legatoria. È vivo. Ha qualche protesi ma è vivo.
Non voleva lasciarmi pur avendoci provato e io l’ho condiviso col mondo che lo ha consumato rendendolo bellissimo e unico. Così come gli occhi degli astanti stavano consumando Francesca in quella sera in cui era bellissima, unica e incinta di mio figlio. Girava, avvolta da un morbido vestito blu con fiori azzurri che arrivava poco sopra al ginocchio. Io lacerato tra l’attesa di riaverla per me, carnosa come era, e il timore che stesse agitandosi troppo con mio figlio in grembo, intanto pensavo, come sempre ho pensato, che anche lei aveva tentato e stava tentando di lasciarmi. Ma anche lei non ci riusciva. Come se la mia ossessiva follia fosse, per lei come per il libro, uno strumento per tenere insieme i pezzi di se.
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Esiste un rito durante la gravidanza.
Ha il valore di un parto ma si tratta di un rito nato nel secolo della scienza e della tecnica: la prima ecografia.
Prima di qualche decennio fa non potevamo certo dare un’occhiata al nascituro prima che fosse nato. Lo immaginavamo, si congetturava ma si poteva soltanto osservare quella pancia crogiolo di vita. Poi l’ecografia ha cambiato le carte in tavola. Oggi possiamo dare una sbirciatina e rendere materia l’immaginazione, anche in 3D, seppur attraverso la mediazione di uno schermo, di una sonda e di un gel. Era il terzo mese e stavamo andando in direzione di Borgotaro, al secolo Borgo Val di Taro, piccolo paese del parmense in cui la ASL ci aveva dato la possibilità di effettuare l’ecografia.
Tra poco vi racconterò la prima ecografia, dunque. Prima devo raccontarvi cosa si deve fare prima dell’ecografia. Prima di ogni ecografia è bene fare la pipì. Non mi sto riferendo al fatto che la puerpera debba svuotare la vescica per favorire l’indagine ecografica. Piuttosto mi riferisco al “puerpero”, ossia a quell’inutile individuo che svolgerà il ruolo di padre un giorno ma che, in quel momento, così come per tutta la gravidanza, si affanna a trovare il modo di rendersi utile senza riuscirci, poiché non sa di non avere alcuna utilità. Ogni padre deve cercare di svuotare la vescica per evitare intoppi durante l’ecografia. Ed io ero realmente emozionato e quindi anche pieno di pipì. Fare in modo che la mia pipì non creasse problemi di sorta sarebbe stato il mio modo di essere utile.
Mi affannavo a guidare cercando di accelerare i tempi, senza sballottare troppo madre e figlio, per trovare un bagno.
Mio fratello qualche sera prima non si era altrettanto affannato. Anzi era piuttosto rilassato nel guardare i cartoni animati. Lo faceva da in piedi, con le mani rigorosamente dentro i pantaloni del pigiama, aggrappate a un pene imberbe, non so ancora se per evitare di cadere o che scappasse. Il capo reclinato leggermente in avanti e con un sentore di smorfia ad ovest. Gustavo, nome infausto per lui, in quel modo cercava di favorire la messa a fuoco pigra e rugginosa a causa della sua miopia che, probabilmente, era anche dovuta alla devozione al dio Onan di cui mai mi ha parlato. Quel giorno di circa 25 anni prima, eravamo stati al museo egizio di cui personalmente non ricordo nulla. Fa eccezione alla mia amnesia mio fratello che, invece, era stato tutto il tempo a girare come una trottola, come in preda a un isterismo bulimico sotto l’egida del Dio Ra. Aveva ingurgitato e rivomitato statue che comunque gli erano rimaste sullo stomaco facendogli dimenticare il bagno.
Per questo, una volta spenta la luce, dopo qualche minuto, Gustavo, mio fratello, mi disse: “Devo fare la pipì”. Gli risposi che poteva tranquillamente andare al bagno ma lui mi guardò fendendo il buio con lo sguardo. Vedevo i suoi occhi e sembravano quelli del dio Ra. Mi disse che aveva paura…
“Ho visto il dio Anubi”, disse e io che un giorno avrei saputo che si trattava di un Dio con il corpo umano e la testa di sciacallo, venerato come protettore delle tombe e dei cimiteri, il cui epiteto è Khentamentyu, che significa Signore degli Occidentali e che successivamente divenne il nome di una divinità canina a sé stante, rinvia a un cerbero, un cane, uno psicopompo, una guida dell’anima verso la morte, lo stesso animale che, se arriva in sogno, ci informa che la Terapia è iniziata… insomma… Io fui preso immediatamente da un senso di rivincita.Non vidi l’inizio della terapia di mio fratello, piuttosto vidi Abele che, finalmente, mostrava il suo lato debole mostrandosi nelle sue ombre. Dopo avermi vessato per anni, lo vedevo cedevole e indifeso. Ho goduto in silenzio mentre mi raccontava che il Dio Anubi aveva il braccio teso in direzione di una Mummia e, ancor più godetti, quando lo vidi smarrito nel dirmi che quella stessa Mummia aveva aperto gli occhi fissandoli su di lui. Ma nello stesso momento in cui i tamburi, solenni, rullavano sulla sua disfatta, mi accorsi come il godimento iniziasse a lasciare il posto al timore di perdere colui che era in grado di proteggermi. Forse anche la mia psicoterapia è iniziata allora.
Scacciò i miei timori sbattendo le ciglia nel buio. Le stesse ciglia che erano immobili da 3 interminabili minuti. Dichiarò, con piglio più solenne dei tamburi, di avere un piano. Lo conoscevo, non il piano, ma mio fratello maggiore, e sapevo che era capace, spesso, se non sempre, di iperboli da commedia felliniana. Sapevo anche che pure quella volta non mi avrebbe deluso. Anzi la mia curiosità in quei momenti saliva in modo esponenziale. L’eccitazione era al massimo quando lo vidi prendere il cestino della carta e avvicinarlo ai suoi piedi. Intuii che stava per fare qualcosa di veramente sciocco e, per questo, mitologico. Si tirò giù i pantaloni estrasse il suo pene, sempre imberbe, con finta disinvoltura. Mi guardò e, nel tentativo di recuperare dignità affermò qualcosa che sarebbe dovuto suonare come: “ora ti insegno come si fa la pipì”.
Iniziò a mingere con piacere nel secchio che aveva diligentemente svuotato dalla carta. Il brivido di freddo lo spinse a una unica quasi feroce convulsione ma mi risparmiò il sospiro di godimento. Eppure aveva dimenticato un particolare. Proprio quel secchio verde aveva i bordi traforati. Poteva, dunque, contenere una modica quantità di urina. Mio fratello aveva confidato nelle capacità del secchio e, di contro, aveva sottostimato le quantità di urina in un soggetto che aveva paura da un giorno intero. Quando vide che il liquido giallo-paglierino iniziava a raggiungere il limite fece una smorfia e, con sforzo immane, interruppe la minzione. Un’altra convulsione di incontinenza lo iniziava ad agitare ulteriormente, lesto si avviò verso la finestra e, frenetico, tenendo con una mano quel pene stropicciato, prese con l’altra una sedia mettendola davanti alla finestra. Aprì, si affacciò su quella via dei Centurioni in cui buona parte dei vicini sapevano chi eravamo e, una volta salito sulla sedia, concluse di fare la pipì giù nella via. Lo scroscio risuonava nella notte e prorompeva nei miei timpani come il clamore di una folla che assiste alla forca. Io osservavo ammirato di tanta impudicizia e, mentre io stesso mi vedevo “liberarmi di questo mondo di merda pisciandogli addosso”, al tempo stesso ero terrorizzato poiché, per me, chi fa pipì dalla finestra farà la stessa fine del tizio del film “Non ci resta che piangere”: miserabilmente infilzato da una lancia che lo ammonisce per cotanta sventatezza. Ho sempre invidiato la capacità di mio fratello di perdere la dignità con tanta dignità. Io sono sempre stato molto più riservato e attento a non far figuracce, ma i miei mostri sono sempre stati i suoi eroi e i suoi eroi i miei mostri. Intanto lui, dietro la veste del giullare, si è preso la libertà di insultare quello stesso mondo a cui io, devotamente, avevo tolto la parola.
Si perché io e lui ci eravamo spartiti l’olimpo in modo imparziale. Io ero il Caino geloso, invidioso che non accettava la sua “abelità”. Lui invece era Abele altruista e genuino che non accettava la sua “cainaggine”.
Svuotò il secchio sempre dalla finestra, si rimise nel letto soddisfatto.
Mentre guidavo in direzione dell’ospedale, celavo la mia ansia e la mia pipì a Francesca, in attesa di trovare quella stessa soddisfazione e affrontare l’ecografia dignitosamente. Se avessi avuto un secchio e una finestra, avrei certamente seguito l’esempio di mio fratello. Intanto Anubi, il cane, lo psicopompo, mi chiamava di nuovo, come 25 anni prima, mi tornava col ricordo di mio fratello e con il ricordo mi diceva che lui stesso mi era fratello. Fissai il colore verde della spia della freccia, lo stesso verde del cartello che indicava Borgotaro. Rallentando auto e cuore evitai di incrociare lo sguardo di Francesca che mi sorrideva, sembrava vedere quel cane accanto a me anche lei. E mi compativa piena di ammirazione, come io feci con Gustavo nella notte in cui iniziò la terapia.
La prima ecografia. Afrodite è l’anima del processo di individuazione – Decima istantanea
Stavo raccontandovi di mio fratello nell’istantanea precedente. Mi ricordo di aver detto che “esiste un rito durante la gravidanza”. Ha il valore di un parto, ma si tratta di un rito nato nel secolo della scienza e della tecnica: La prima ecografia. Prima di qualche decennio fa non potevamo certo dare un’occhiata al nascituro prima che fosse nato. Lo immaginavamo, si congetturava e si poteva soltanto osservare quella pancia, più o meno a punta, crogiuolo di vita. Poi l’ecografia ha cambiato le carte in tavola. Oggi possiamo dare una sbirciatina e rendere materia l’immaginazione, seppur attraverso la mediazione di uno schermo, di una sonda e di un gel. Era il terzo mese e stavamo andando in direzione di Borgotaro, al secolo Borgo Val di Taro, piccolo paese del parmense in cui il computer della ASL ci aveva spedito per effettuare l’ecografia, la prima.
Arrivammo al distaccamento sanitario di Borgotaro. Trovai subito un parcheggio agile, a ridosso di una specie di condizionatore le cui ventole rumoreggiavano stanche, senza prepotenza, quasi non volessero turbare il sonno del nascituro. Io scesi e mi sbrigai ad andare ad aprire lo sportello di Francesca. Avevo il fare di chi stava per avere un figlio di lì a qualche minuto e mi avvicinavo alla mia dolce metà come se fosse al nono mese. Una donna al terzo mese è, invece, tutt’altro che in panne e, per di più, Francesca è sempre stata amazzone. Mai e poi mai avrebbe ceduto all’idea di chiedere aiuto. Arrivai dall’altra parte dell’auto e trovai lo sportello già aperto e lei in piedi, longilinea e bella.
Intorno a noi facevano da cornice gli appennini del parmense, inaspettatamente alpine come montagne. Il greto del torrente dava un ulteriore aura sudtirolese a quel comune emiliano. Intanto un gelido sole faceva sembrare tutto come un negozio di cristalli. Ed io non potevo che sentirmi come un elefante.
Non facemmo fatica a trovare il reparto e l’ambulatorio. Ci sedemmo su quelle sedie di acciaio e fòrmica verde che mi riportavano alle aule di scuola media e alla cucina di mia nonna, quella col tavolo in marmo bianco su cui mangiavo patatine fritte industriali. Le schiacciavo, le patatine, come quando ero all’asilo. “Così sono di più”, dicevo, sapendo di dire una stupidaggine. E, dopo averle schiacciate, ci mettevo su un po’ del sugo caldo della nonna. Ma le sedie restavano fredde come quelle del reparto di ostetricia e noi compensavamo, caldi nel cuore come eravamo. Cavalcavamo i 30 anni. Io appena in là e lei poco prima della soglia. Eppure ci sembrava di avere secoli di vita addosso, quelli di tutta l’umanità fino a quel momento.
Avevo fatto la pipì ma, per evitare che si rigonfiasse di nuovo la vescica, facevo battute sceme e intonavo vaghe imitazioni di Pavarotti che cantava canzoni di musica leggera. Vocalizzare Pavarotti che, tenorilmente, diceva “I’m a Barbie girl” faceva ridere Francesca in quello squisito modo sguaiato che destinava, non solo a Pavarotti che cerca di essere giovane, ma a chiunque indossi maschere iperboliche.
Mia madre inorridì quando sentì quella risata sullo schermo. Il Gattopardo, impersonato da Burt Lancaster, era la sua icona. Ultimo baluardo della sua perduta nobiltà. Lo inneggiava costringendoci a visioni forzate accompagnate da esortazioni del tipo “vedi!?”, “Così si fa!”, “questo è come tuo nonno!”. Noi ingurgitavamo come quando mangi tutto solo per evitare una punizione. Luchino Visconti, mio omonimo, aveva scelto Claudia Cardinale per impersonare Angelica, la splendida e afroditica di umili origini che sposerà il nobile, quello direttamente discendente dal principe Lancaster. La scena clou arriva col clangore della risata sguaiata di Angelica durante una serata al Palazzo del Gattopardo, con gli astanti oltremodo basiti per cotanta becera esibizione [cit. il monito di mia madre]. È assolutamente e indiscutibilmente inopportuno ridere a quel modo. Era proprio una popolana non degna di stare a palazzo.
Francesca in quel momento rideva, allo stesso modo di Claudia Cardinale. Afroditica come lei, continuava sguaiatamente a distruggere le mie certezze costringendomi a buttare giù la maschera. Io la osservavo e quelle risa rimbalzavano dentro di me. Io ero lacerato, quando rideva così, tra l’estasi nel vedere distrutti i muri del Palazzo di famiglia, e il terrore di non avere più una casa. Le sue risa finirono fin quando un uomo, con una barba non troppo rassicurante, ci chiese se noi fossimo noi ricucendo, senza volerlo, le mie lacerazioni. Il camice bianco non lasciava spazio ai dubbi. Quello sarebbe stato il medico che avrebbe fatto l’ecografia. Mi chiesi subito perché mai non ci fosse capitata una donna. Mi irritava l’idea che quell’uomo barbuto, e anche un po’ dimesso direi, mettesse le mani sulla pancia della madre di mio figlio.
Poi ci fece accomodare. Accese il monitor e il macchinario. Chiese a Francesca di scoprire la pancia. Prese la sonda. Spalmò il gel sulla pancia. Freddo nella mia testa più che sulla pancia. Infine iniziò a poggiare la sonda sul ventre e magicamente apparve un’immagine, prima sullo schermo, poi dentro di me.
Mai mi sarei aspettato di vedere un corpicino per intero. Una miniatura di vita. Mai mi sarei immaginato di poterne udire il battito. Ho sempre guardato le foto delle ecografie fingendo di aver individuato una forma, mentre ho sempre e solo visto delle macchie di Rorschach su cui proiettavo vagine o farfalle (che poi hanno una certa somiglianza). Invece lì vidi mio figlio e, giuro, non fingevo. Distinguevo testa, braccia, mani, gambe e piedi. Quasi potevo contare le dita e, come ogni padre che si rispetti, indugiavo sul pube per verificare di cosa fosse dotato. Guardavamo estasiati, basiti, scioccati. Quel nostro sguardo ebete fu colto dal medico che si mostrò, d’un tratto, paterno come solo uno zio sa fare. Ci guidò nell’osservazione e scherzava con noi. Ci disse che lo avrebbe fatto muovere e iniziò a oscillare la sonda sul ventre di mia moglie e su mio figlio. Lui, mio figlio, fece per girarsi infastidito. Mentre speravo che la smettesse di agitare la sonda per stuzzicare il pargolo, il medico gli sorrideva benevolmente e noi osservavamo quel medico, padre e zio, come fossimo Dorothy che contempla il mago di Oz. Ho l’impressione che anche il medico si commosse insieme a noi, nel vederci così felici. Felici soprattutto quando lui ci disse che nostro figlio era una femmina.
Brindammo con un cappuccino e una bomba alla crema. Ci sentivamo enormi in quel piccolissimo Gran Caffè pieno di specchi liberty che si trovava nella via centrale di quel paesino. Poi, colmi, riprendemmo la via del ritorno. I cristalli sembravano essersi sciolti e io, pur sempre sentendomi un elefante, avevo molta meno paura a muovermi.
Computer anni 80′ e Mundus Immaginalis – Undicesima istantanea
Eravamo in macchina e la strada scorreva dolce sotto gli pneumatici. Come se qualcuno avesse levigato quell’asfalto che nel viaggio di andata era sembrato molto più ricco di asperità. Eravamo arrivati all’ospedale senza superare i limiti di velocità ma pieni di ansia. Fare la prima ecografia del primo figlio non è cosa da poco e io avevo guidato come se quel figlio lo avessi avuto seduto accanto a me. L’ecografia ci aveva informato del fatto che mio figlio era una femmina e che era in salute. Noi ci eravamo commossi e il medico, un po’ zotico, insieme a noi. Ora guidavo come se mia figlia fosse già grande e, in qualità di femmina, molto più capace di assorbire gli urti. Dunque la strada, probabilmente, presentava le stesse asperità che aveva all’andata, mentre la mia anima si sentiva più liscia.
Poi uno dei molteplici suoni e campanelli che hanno invaso le nostre silenziose vite ci annunciava della posta. Era una mail sul cellulare. Francesca lo prese, lo liberò dai grovigli dei carica batterie e, tenendo lo sguardo sullo schermo esclamò: “Il referto!… è già arrivato!”
Si vede che quel medico con la barba incolta ci aveva preso in simpatia, pensai. Poi pensai a come un tempo avremmo dovuto aspettare molto di più per un referto. Pensai al tempo in cui i cellulari erano fantascienza e erano di dimensioni enormi. Pensai al tempo dei “Commodore 64” e dei “T99”, quell’avanguardia informatica di metà anni 80’ la cui grafica ancora si avvaleva per lo più dell’immaginazione del giocatore.
I nostri volti quella sera erano illuminati “radentemente” dai radi pixel del televisore che venivano sparati dal tubo catodico fino allo schermo. Chiara e Gustavo sul divanetto, io spostato verso sinistra, in posizione fetale sulla poltrona che, ai miei 7 anni, riusciva ancora a farsi grembo. I volti erano invecchiati dai solchi epidermici che venivano evidenziati dalla luce radente, mentre gli occhi sgranati riflettevano quello schermo anni 80’.
Noi non avevamo il computer ma potevamo usare quello di mio zio. Il fratello minore di mia madre aveva acquistato quel T99 della Texas Instruments, azienda americana con sede proprio nella zona industriale di Rieti, che ci faceva sentire un po’ meno provinciali. Il computer al tempo era una tastiera con un alloggio per cartucce da gioco. Il Commodore 64 era più per ricchi e aveva in dotazione un registratore esterno in cui inserire delle musicassette. Mentre le si faceva girare emettevano suoni simili ad acufeni che poi ci avrebbero torturato per tutta la notte. Nell’attendere che i giochi si caricassero l’immaginazione generava luoghi immaginari incommensurabili. Così una volta messo in carica il titolo di Indiana Jones nel mangiacassette, si iniziavano a sentire grida di animali, le foglie squarciate nella giungla, soldati mercenari che parlottano, aeroplani che precipitano. Poi il suono sibilante finiva e questo significava che si poteva giocare. Ecco che un computer anni 80’ sintetizzava tutta quella immaginazione in una serie di poligoni che insieme formavano qualcosa che poteva vagamente somigliare a una figura umana che si aggrappava a liane “poligonose”.
La delusione è sempre stata inferiore soltanto alla sensazione di sentirsi stupidi. Effettivamente questo avviene anche in terapia. Tutta l’immaginazione dei pazienti viene sintetizzata da modelli che solo lontanamente rispecchiano l’anima dei pazienti che, come Indiana Jones, si sentono piuttosto “poligonosi” in terapia.
Con il T99 si poteva anche fare programmazione ed è per questo che noi tre fratelli eravamo davanti al televisore quella sera. Avevamo scoperto che, digitando una sequenza di circa 30 pagine di stringhe senza senso, potevamo caricare un gioco di slot machine. Quando i miei fratelli mi dissero se ero d’accordo nel chiedere un permesso “speciale” a nostra madre per generare quella slot machine, io ne fui entusiasta. Immaginavo un’intera Las Vegas comporsi intorno a me ad ogni tasto digitato. Fu con quell’immagine che facemmo la richiesta a mia madre. Facevamo sempre un summit con mia madre per questi permessi speciali e non sempre ci venivano accordati. Ma non in quella occasione…
Cenammo e, come un avanguardia della fanteria ci organizzammo. Mio fratello avrebbe dettato le stringhe. Mia sorella le avrebbe digitate. Io avrei osservato con estrema attenzione. La luce livida della stanza non scalfiva lo sfarzo della Las Vegas che c’era nelle nostre menti. Passammo circa 4 ore a compiere quell’impresa ma io non ce la feci a restare sveglio e crollai a metà della terza ora. Mi svegliarono a operazione conclusa gridandomi che avevano finito! Io mi rizzai su in cerca delle luci, delle slot, dei tori meccanici, delle ballerine, della torre Eiffel. Poi guardai lo schermo nel cui centro intravidi tre quadratini. Soltanto tre quadratini, di meno di un centimetro di lato, che si perdevano nel centro dello schermo. Osservai gli occhi dei miei fratelli che erano pronti a premere il tasto di azionamento della slot. Ci guardammo complici convinti che Las Vegas si sarebbe palesata nel momento in cui avremmo premuto il tasto “enter”. Lasciammo quell’incombenza a mio fratello per diritto di anzianità. Lui pigiò e sullo schermo nei tre quadratini comparvero tre simboli diversi. Senza rollare. Comparvero e basta. Nessun rumore. Nessuna luce. Niente. Evitammo di guardarci negli occhi per imbarazzo. Mio fratello pigiò altre 3, forse 4 volte, poi andammo a dormire. Senza dire una parola.
Quando chiusi gli occhi Las Vegas comparve di nuovo e allora compresi che l’immaginazione si svilisce quando cerchiamo di trovarla negli oggetti. Anni dopo compresi che l’immaginale fatica sempre a trovare una corrispondenza nel reale e che le immagini precipitano rapacemente sugli oggetti che, anche solo lontanamente, sembrano avere una vaga somiglianza con loro. Si impossessano di quella materia, come noi spesso siamo posseduti dagli dei. Omero ce lo disse ma la prendemmo per una canzonetta.
In quella macchina, invece, in men che non si dica, e certo in molto meno delle 4 ore richieste dal T99, era arrivato il referto dell’ecografia che ci diceva che eravamo in dolce attesa di una femmina. Lo avrei voluto condividere subito con i miei fratelli. Avrei voluto mostrare a quei poveri fanciulli che erano sotto quella luce livida di 20 prima il prodigio della tecnologia per consolarli. Quella ecografia non era niente di più rispetto alla slot del T99, ma la mia immaginazione l’aveva già resa una Luna Park. Eravamo incinti e questo mi restituì il sorriso. Il sorriso della Las Vegas che era nel grembo di Francesca.
Colpo di fulmine: Lo scopo della terapia? Congiunzione degli opposti – Dodicesima istantanea
Mi chiedo ancora come mi fosse venuto in mente di fare un figlio con Francesca!? Era incinta al terzo mese, avevamo appena fatto l’ecografia, eravamo l’immagine sputata di un clichè registico all’italiana, ma così profondamente diversi. I nostri volti, al di là di quel parabrezza, tradivano le nostre innumerevoli idiosincrasie.
Le mie lontane origini nobiliari si incontravano con le sue lontani origini contadine. La mia sociopatia mal si conciliava con la sua spiccata socievolezza, così come il mio essere schivo non si conciliava con la sua assenza di ritrosia. Potrei andare avanti e lo farò. Io sono uno che vota a destra ma la pensa come uno di sinistra, mentre lei è una che vota a sinistra e la pensa come uno di destra; tendo ad arrivare in anticipo mentre lei arriva sempre in ritardo; se lei adora i suoi familiari, anche i miei, io non li sopporto, ne i miei ne i suoi; Io sono ansioso e lei è depressa; io non vado sulle montagne russe mentre lei si; lei mangia la carne con le mani e il pesce con le posate, mentre io non tocco la carne e mi inzacchero col pesce; io sono ultimogenito mentre lei è primogenita; lei è donna e io sono un uomo; ma soprattutto, lei è bella e io direi proprio di no.
Poi negli anni ho visto che io ero ciò che lei voleva essere e viceversa. Ho visto che lei piange dove io rido. Penso che sia proprio questo aspetto che mi ha spinto a corteggiarla, così come mi ha spinto il fatto che lei ride dove io piango. Mi accorsi di questo da subito, ma non da subito mi accorsi che se lei era là dove io non ero, lei sarebbe andata via da lì proprio quando io avessi trovato la via per raggiungerla. Si perché in genere due amanti fanno viaggi in direzione opposta e si incontrano a metà strada, in un autogrill. Poi, una volta giunti a destinazione, non si trovano e allora iniziano a stare insieme. E iniziano a starci con intenso trasporto. Questo è il segreto dell’unione degli opposti, accettare la separazione, accettare che l’altro è sempre un riflesso di me, quindi lo incontrerò quando smetterò di cercarlo, quando smetterò di cercarmi nel mondo.
Per questi motivi quando le proposi di fare un viaggio in Sardegna con le bici e lei, inaspettatamente, mi disse di si, rimasi di stucco. Effettivamente io sono uno che dice no, mentre lei è una che dice si. Quel viaggio sarebbe stato il nostro autogrill e noi, 5 anni prima di restare incinti, senza saperlo, ci saremmo incontrati lì. Iniziai, quindi, ad allestire le bici rinforzando i portapacchi e facendo delle prove di carico che le bici superarono egregiamente. Poi iniziammo la preparazione atletica facendo giri in bici piuttosto ridicoli rispetto all’impresa che ci eravamo prefissati. Quindi acquistammo l’attrezzatura con borse stagne, tenda e tutto ciò che ritenevamo necessario per il viaggio. Alla fine partimmo e, da Rieti, in due tappe, più che altro pianura, siamo arrivati al porto di Civitavecchia dove ci siamo imbarcati alla volta di Olbia.
Quando il sole dell’aurora fa capolino sulla coperta del traghetto della Sardegna, e quando, poi, illumina i promontori del porto di Olbia è ogni volta un’Epifania. Dopo aver attraversato il mare dell’Inconscio, quella terra assume un aura così materna da riempirti il cuore. Scendemmo dalla nave con addosso gli occhi increduli dei vacanzieri. Inforcammo la nostra bici e partimmo in direzione Costa Smeralda. I primi 20 km dei 90 previsti per quella prima tappa ci permisero di capire che andare in viaggio in bici è come sposarsi. Si scoprono irrimediabilmente le differenze. Io vado bene nel saliscendi e nei secondi 45 km, mentre Francesca va bene in pianura e nei primi 45 km. Maledetti opposti!
Superato Porto Cervo, dopo aver visitato gli yachts ormeggiati dai ricchi frequentatori dei billionaire, volgemmo alla volta della roccia dell’orso e di Palau dove avremmo piantato la tenda per tre giorni. Ma mai dire “gatto”. Al 44° km, quindi ancora nei territori atletici di Francesca, ecco che il mio sorriso arrogante, quello di chi ritiene di essere più forte di Gaia, la Madre Terra, si va a infrangere su un muro di nubi grigie e nere che, leste, erano giunte a punire la mia tracotanza. Ci raggiunge uno dei temporali più feroci che abbia mai visto. E la ferocia è tanto maggiore quanti meno vestiti hai addosso. Più sei nudo, più sei vero e più sei soggetto alle intemperie. Secchiate di acqua iniziarono a sferzare su di noi dalla nostra destra e io, dopo un timido tentativo di gonfiare il petto d’orgoglio, iniziai a vacillare. Avrebbero tenuto le bici? E le borse stagne? E noi? Quando iniziai a vedere i fulmini che cadevano a circa 20 metri da noi, vacillai del tutto. Iniziai a pensare che forse ci avevo sopravvalutati. E quando il terzo fulmine schioccò violentemente accanto a me, nella mia testa comparve la frase “voglio mamma” e io, pieno di vergogna decisi di fermarmi. Ero realmente disperato e impaurito. Unica consolazione era che la pioggia avrebbe mimetizzato le lacrime.
Stavo per poggiare il piede e feci per girarmi, alla maniera di Di Caprio, che saluta la Winslet, prima di mollare la zattera di fortuna in mezzo al gelido oceano che aveva trafitto la nostra nave. Quando la vidi, lei, la mia dolce metà, pedalare e ridere bulimicamente. Tentai di indignarmi ma la mia indignazione non ebbe spazio. Tentai di proteggere la mia tracotanza dalle risa mentre, in modo grasso, come se fosse sulle montagne russe, che in genere non faccio, Francesca, impietosa, si alleava con Gea per ricordarmi che ero solo un misero puntino sulla sua pelle. Sua di Gea, si intende. I suoi denti bianchissimi si contrapponevano al grigio delle nuvole, mentre lo squillo delle sue risa, quasi volgari, sembravano poter tacitare Zeus che cercava di impaurirla coi suoi fulmini. La osservavo, lei, al confine con la stupidità, quella grassa risata ridicolizzava la mia disperazione che era, invece, ben oltre il confine della stupidità. Capii che la fede che Francesca ha nella bontà del mondo è il suo vero talento ma anche la sua croce. Ma è questo il motivo per cui volevo un figlio da lei.
Provai a non farlo, e giuro che mi impegnai, ma poi iniziai a ridere e, lentamente isterici, abbiamo continuato a pedalare sotto quell’acqua che ci unì. Opposti e per questo uguali, forti perché debolmente avvinghiati. Quando raggiungemmo un campeggio i gestori ci guardarono senza stupore. Io mi sarei aspettato un elisoccorso mentre, agli occhi degli altri, agli occhi del mondo, eravamo assolutamente normali. Si perché quando gli opposti si incontrano, sono strani solo ai loro stessi occhi, mentre per il mondo quella è la normalità. Per questo non ci chiesero neanche se avessimo bisogno di aiuto. Anche perché, effettivamente, non avevamo bisogno di nulla. L’acqua scorreva dalla collina sopra il campeggio e aveva divelto i picchetti delle tende in gran parte afflosciate come lo ero io qualche fulmine prima. Poi, così come era arrivata, andò via. Spuntò un ruggente e impaurito sole e ridemmo ancora 10 minuti. Poi, nell’indifferenza di tutti, ripartimmo. Stupefacenti.
Eravamo ora in macchina, avevamo fatto la prima ecografia. Sapevamo di poter affrontare tutti gli elementi. Lo avevamo sperimentato in quell’”autogrill” sardo. Francesca era in attesa della nostra primogenita e il motivo per cui avevamo deciso di avere un figlio insieme è forse proprio quel colpo di fulmine che la madre-Sardegna ci aveva donato anni prima. Opposti indissolubilmente, destinati a separaci inesorabilmente.
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