Istantanee di parole per ridurre il consumo di farmaci
Esistono dei farmaci di estrema efficacia: le parole.
La psicoterapia è la cura con le parole. Le parole sono dèi, diceva James Hillman, che ci vengono a trovare e che ci aiutano a deflazionare le inflazioni e a titillare le deflazioni.
La psiche è fatta di immagini e le parole sono immagini.
I sogni sono curativi nella misura in cui sono espressione della psiche. Altrettanto le parole; sono persone della nostra psiche che danzano tra loro a creare coreografie che rompono la stasi. La cristallizzazione e l’immobilità psicologica generano sofferenza. La danza di lettere e parole costituisce un processo di differenziazione delle immagini, un processo in cui le immagini si organizzano, si relazionano e si riproducono.
Diceva un mirabile filologo di nome Hermann Usener:
La creazione di una parola è il riflesso di un’emozione provata dall’anima che viene messa in movimento dalla percezione di qualcosa di esteriore o da una rappresentazione interiore. Nella misura in cui una rappresentazione si fa sentire più volte… essa sarà anche occasione per una ripetuta creazione linguistica… Mentre, però, i fenomeni del mondo esterno con la loro frequente o regolare ripetizione perdono un po’ alla volta qualcosa della loro forza emozionale, le impressioni che nella mente umana risvegliano le rappresentazioni delle potenze divine conservano in larga misura la piena vitalità della loro efficacia emotiva… Tutte le più importanti manifestazioni divine hanno indotto ad una più fervida invenzione e fusione linguistica e le parole cambiano rinnovandosi spontaneamente.
Dunque l’incontro e la danza tra parole è la manifestazione di psiche che cresce e si evolve. Ogni parola è un dio, una persona, un’emozione, un bisogno, un comportamento. La danza tra loro è la manifestazione di bisogni, condotte ed emozioni che si organizzano dentro di noi.
Scrivere e leggere sono dunque l’atto di cura per eccellenza.
Se il mondo scoprisse quanto sia curativo scrivere nessuno andrebbe più in terapia affermava Hillman. Del resto Carl Gustav Jung invitava i lettori del Libro Rosso a scrivere il proprio Libro Rosso piuttosto che a seguire le sue orme, anche se forse l’intenzione era un’altra.
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Un romanzo in pillole – LEGGERE ATTENTAMENTE IL FOGLIETTO ILLUSTRATIVO
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Qui proponiamo un metodo di cura, una farmacopea psicologica che coincide con il vocabolario della lingua italiana. Miscugli di parole che danzano a formare balsami e tonici per l’anima.
Un Romanzo in pillole: 5.000 battute a settimana, spazi inclusi. Nei casi più gravi si arriva anche a 8.000 battute. Da Prendere al mattino della domenica, a stomaco pieno.
Leggere attentamente questo foglietto illustrativo.
Ogni settimana uscirà un breve racconto che può essere letto un po’ per volta o tutto insieme. Ogni puntata sarà una diversa suggestione raccolta da psiche, un’istantanea, un’immagine dipinta nella mente e, nel contempo, questa foto, andrà a comporre un album, un racconto che contiene tutte le immagini. Magari col tempo diventerà una storia scritta a più mani e in rete.
Le storie curano e le parole, di cui sono composte, altrettanto, specie quelle scritte di proprio pugno. Quindi questo è un elogio alle parole come unico e vero farmaco.
Ti invito a salvare questo articolo tra i preferiti per leggere la puntata che uscirà ogni settimana.
Inoltre ti invito a leggere, e poi a scrivere le tue pillole. Ti invito a produrre i tuoi farmaci e la tua cura perché la psicoterapia fa questo: sollecita, sviluppa, alleva le immagini di ognuno affinché divengano abili e capaci di essere, come le Muse della Teogonia esiodea, oblio dei mali e tregua delle cure. Solo, poniamo l’attenzione sul fatto che l’etimologia della parola tregua rimanda a significati come fede, fiducia, patto o promessa di cura.
Questa è la stessa promessa fatta dalle parole.
Buona lettura!
Fantasia [I giorni della settimana] – Prima istantanea
Mi sono sempre chiesto perché i giorni della settimana fossero tanto diversi. Capiamoci non che lo fossero nel concretismo. Sono sempre una sequenza di istanti scandita dal sorgere e il tramontare del sole. Eppure, dentro di me, hanno sempre assunto forme, profumi, colori ed emozioni diverse. Ruminavo questi pensieri e intanto guidavo la mia macchina verso Roma. Cullato dalla storica morbidezza delle sospensioni francesi, osservavo il mio campo visivo periferico, quello in cui Francesca, la mia compagna e la mia malattia, si osservava, critica, nello specchietto del parasole cercando di eliminare le imperfezioni del suo viso. Guardavo la sua bocca storta verso la guancia, nella mia direzione. Il tutto per stirare la pelle e facilitare il compito di pulitura. il corpo è sempre costretto a sopportare lo stress mentre noi cerchiamo di eliminare i difetti che attribuiamo alla idea che abbiamo di lui. Intanto lui, il corpo, inesorabile e impietoso, ci ricorda che siamo cosa ben diversa dagli dèi anche se, ogni corpo, in verità, è sempre opera d’arte.
Guidavo e vagheggiavo pensieri in disordine. Mi era capitato altre volte di pensare al perché un martedì lo vivo tanto diversamente da un venerdì? Al perché ci sono giorni che sembrano lunghi e altri corti? Giorni luminosi e giorni grigi, seppur pieni di sole? Insomma perché ogni giorno sembra avere il suo inno, il suo dio, il suo colore pur essendo una mera ripetizione ciclica di eventi fisici?
Il Lunedì… Si il lunedì, ad esempio, è grigio e maschile. Il Lunedì è freddo, è lunare, umorale e lunghissimo. Specie al mattino. Il sole che sorge, ammesso che vi sia il sole, è livido e svogliato. Non scalda d’inverno e non cura d’estate. Il lunedì aspetto che il tempo passi e, quando arriva sera, sono felice che sia andato.
L’alba successiva, anche se identica alla precedente, è stranamente luminosa. Manca ancora molto alla fine della settimana, eppure mi sembra di aver la forza di fare tutto e di aver fatto ormai gran parte di questo tutto. Il dì di Marte, il dio della guerra, anzi il dio protettore di campi e di greggi. Il mio dio, quello del martedì ha la forza, dunque si dice che ce la farà. C’è uno strano erotismo afroditico nel martedì. C’è la voglia di generare e questa voglia è propellente per l’anima. Quando giunge al termine lascia il brivido, il possibilismo della generatività che mi sembra si possa attuare di lì al mattino successivo, che giunge senza ritardi.
Eccolo! il Mercoledì. Un giorno misto tanto grigio, tanto luminoso. Se mi guardo indietro vedo nitidamente il grigio del Lunedì, ma davanti a me, lontano, all’orizzonte, appare il dì di festa a motivarmi. E’ un giorno frizzante in cui l’umore va su e giù, si smaltisce il lunedì con la visione della domenica. Il mercoledì mette in comunicazione, come il messaggero degli dèi, da cui prende il nome, tutti i giorni della settimana, tutti gli umori, tutte le azioni possibili eliminando ciò che è solo probabile e inneggiando a ciò che è possibile.
E il Giovedì? Che giorno è? Ancora un giorno femminile. Il Giovedì è donna anche se Giove è il suo patrono. Direi un Giove in odore di femminilità. Colori gialli e caldi lo incorniciano così come i rossi. Il Giovedì sembra sempre un giorno d’autunno con tutti i colori che passano dai gialli delle foglie che hanno deciso di cadere, ai rossi di quelle che stanno cadendo. Eppure la tela resta quasi monocroma, di un indefinibile colore pastello. Questo è il vero giorno a metà tra tutti, eppure viene usurpato da Mercurio che, poche ore prima, sembra mettere in comunicazione tutti i pianeti. Questo è un giorno gradevole, che scorre e in cui sento di poter decidere che sia il giorno che voglio. Il giovedì si presta, accogliente, a essere usato come un giorno qualsiasi.
Quando si arriva al venerdì sono già in festa. Attendo il Sabato e vedo nitidamente i contorni della domenica. Il venerdì è un maschio che saltella, è un figlio che ti corre incontro quando si rientra a casa. Ma è anche grigio e, non so perché, con poca luce. Sembra che balli come uno sciamano, ebbro di nettare divino, che vede le prime gocce d’acqua dopo una lunga danza della pioggia.
Il Sabato è invece pieno di sole. È Pan del meriggio che insegue le ninfe per accoppiarsi e poi coricarsi tra le fronde. È il sonno dei giusti. E’ di nuovo maschio ma col calore di una donna. Si muove sui toni del rosso e del giallo. E’ autunnale anch’esso ma come una fioritura di foglie e non come una loro caduta.
La caduta è di Domenica. Il giorno del Dominus, che inizia con i colori del sabato, con la sua luce, con le sue temperature. Poi il sabato finisce definitivamente e lo fa col piombo di Saturno suo patrono. Il Vecchio saturno che sa, in cuor suo, che di lì a poche ore tornerà l’umoralità di quella Luna, che rischia di essere piena. È il giorno del saggio che sente il peso della dea della necessità e comprende che il modo corretto di vivere è nel vivere. Le foglie sono già in terra, di un marrone che tende al nero. Un macero di macerie da cui si attende una rinascita.
Continuavo a guidare e pensai che quello era un Giovedì. Un giorno in cui succede poco. Un giorno in cui si ha la possibilità di dipingere una tela bianca. Il tipico giorno in cui andare a un concerto jazz con la propria amata. Ed era lì che ci stavamo recando. Io, dall’alto dei miei quattro anni in più, la osservavo con l’idea che sarei ancora potuto diventare qualsiasi cosa avessi voluto, senza sapere, in verità, che, a breve, sarebbe iniziata quell’odissea che mi avrebbe condotto per lidi inaspettati e per gestazioni impensate. Questa è la stranezza delle ruminazioni mentali, per quante idee o fantasie tu abbia, non contengono mai quelle che ti accadranno. Si. Ecco, la fantasia è la somma di tutti gli eventi possibili escluso quello che ti accadrà, secondo necessità.
Quando ebbi questo pensiero non sapevo quello in cui mi sarei imbattuto 13 anni dopo. La barba bianca mi iniziava ad ammonire sulla mia età e la facilità di stancarmi mi continuava a risultare estranea. Fatto stà che mentre il mio corpo mi ricorderà dei miei anni, starò leggendo, 13 anni più tardi, di Fantaso e dei suoi fratelli, Morfeo e Fobetore, tutti figli Notte. Starò leggendo di come Morfeo da forma ai sogni, Fobetore agli incubi e Fantaso agli oggetti dei sogni.
Quei tre mi catturano spesso quando guido, e si irritano con me ogni volta che mi accorgo che quello che ho pensato non accade. E anche in quella occasione, Fobetore con un pizzico d’invidia, e tutti e quattro delusi, constatammo che i miei pensieri non contenevano quello che sarebbe successo di lì a poco.
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Che cosa è La psicoterapia? E’ come Don Chisciotte che suona il Jazz.
Mentre guidavo l’auto, sulla strada per Roma, immaginavo il mio volto e quello di Francesca illuminati dal ritorno di luce dei fari delle auto che arrivavano in direzione opposta. Ci osservavo, come fossi fuori dal finestrino, e rimanevo incantato. Seguivo le luci squadrate che venivano dai fanali delle auto e che, parallelepipedicamente, attraversavano il nostro parabrezza. Quei poligoni irregolari che solcavano i nostri visi lasciavano un certo retrogusto noir alle nostre bellezze. Un certo senso di soddisfazione nel guidare mi pervadeva. Come un novello Don Chisciotte in groppa al mio ronzinante, sentivo l’ammirazione della mia Dulcinea. Una sensazione erotica mi pervase e mi venne a trovare Pan con il suo erotismo sfrenato. Ma, si sa, Pan è figlio di tutti gli dèi e per questo non sa chi è padre, o meglio, non sa quale padre seguire. Quindi è scomposto, disordinato e disorganizzato. Per questo estremamente vitale.
Guardavo la strada e al bordo della strada. Cercavo se vi fosse una mulattiera dove appartarmi e dare sfogo a quella eccitazione. Ne individuai una adeguata per un paio di volte. Ma troppo tardi. Il piede sull’acceleratore si era dimostrato poco lesto e forse agiva la mia ambivalenza. In attesa di un’altra occasione osservavo, di sottecchi, la mia Dulcinea e la trasformavo in un Afrodite contemporanea, spregiudicata e vogliosa. Poi eccola! La strada giusta. La individuo per tempo. Posso rallentare.
“Secondo me arriviamo tardi “ dice con serena felicità la mia Dulcinea. Quella stessa serenità che trafisse a morte Pan e mi convinse a tirar dritto fino a quel locale di Testaccio per il concerto jazz a cui eravamo diretti.
Sapete come funziona con il jazz? Un po’ come con il blues. Si ascolta. Si osservano i minuti movimenti delle mani. La loro precisione. Poi si scorre fino al viso del musicista. Se ne assapora il movimento delle rughe e l’oscillare del corpo. Quindi si torna allo strumento. Si gode delle frasi musicali, dei passaggi virtuosi e delle citazioni. Intanto si è cullati dai tre del quartetto che fanno da tappeto al solista di turno. Si osserva la propria amata e ci si compiace di cotanto intellettualismo musicale. Si aspira la sigaretta in quell’estate romana all’aperto e, infine, si guarda l’orologio per accorgersi che è passato, ahimè, solo un quarto d’ora.
A quel punto mi salta alla mente il fatto che nel mio lavoro (e forse non lo avevo ancora detto ma io sono uno psicoterapeuta) è più o meno lo stesso. Chi osservi da fuori una coppia terapeutica probabilmente si metterebbe in attesa di un qualche evento catartico. Osserverebbe la postura, le espressioni dei visi, le pause e i movimenti minuti. Poi, dopo pochi piccoli minuti, probabilmente si stancherebbe. I silenzi alternati ai sospiri e alle rade parole. O a volte a fiumi di parole sempre uguali. Parole che, come note, rischiano di sembrare sconnesse o troppo uguali o troppo diverse, come la musica che ascoltavamo quella sera. Il paziente suona per primo e il terapeuta fa da tappetino musicale. Poi l’assolo diventa del terapeuta. I due si guardano nelle loro reciproche epifanie. Stupiti delle immagini che fanno capolino nella stanza della terapia. Per paziente e terapeuta le frasi musicali, come per i jazzisti, hanno un senso in più. La musica acquista profondità e crea un elemento imponente, ossia l’Attesa. Un jazzista non smetterebbe mai di suonare poiché è in attesa della frase e delle note che sta cercando. Ciò che suona è il mezzo per raggiungere ciò che non ha ancora suonato. Così accade anche in terapia. C’è l’Eros, la spinta a cercare ciò che non si è ancora trovato. Questo rende tutto inebriante. Ma se ci fosse un pubblico probabilmente dopo un po’ fingerebbe di essere interessato. Proprio come noi in quel concerto dal quale ci congedammo con sollievo ma con l’orgoglio di essere stati intellettualmente elevati. Spesso chi ascolta il jazz lo fa più per questo secondo motivo. Forse anche chi va in terapia.
Risalimmo in macchina dopo circa 10 quarti d’ora, 9 dei quali interminabili. Potevo tornare ad indossare i panni di quel Don Chisciotte post litteram. A quel punto, d’un tratto compresi che anche lui, il cavaliere errante, è un ottimo esempio di psicoterapia. La terapia è il romanzo di Don Chisciotte. Il paziente è un cavaliere errante, sbagliando e vagando si confronta con le sue proiezioni in nome di Anima, quella Dulcinea che, in quell’auto, era mirabilmente interpretata da Francesca. Il Terapeuta è Sancho Panza, segue il suo cavaliere “paziente”. Fa lo scudiero, si accorge della realtà ma ha bisogno delle fantasie del suo cavaliere. Cosi nella terapia ad un tratto i confini tra paziente e terapeuta si sfumano, non si comprende più se sia il Cavaliere errante ad avere bisogno del “terreno” scudiero, ovvero se sia Sancho Panza ad aver bisogno del sognatore. Comunque Sancho lo segue. E mai lo conduce.
Mi accorsi, in tutto questo ruminare di idee, di come io, avviato Terapeuta, fossi, ancora, inesorabilmente, “pazientemente”, errante. Poi, giunti all’altezza del Palazzaccio sul lungo-tevere, Francesca esclamò silenziosamente: “Ti devo dire una cosa…”.
Pan mi venne a trovare di nuovo con tutte le ipotesi possibili, con le più nefaste in prima linea. E con lui di nuovo Fantaso, padre di Fantasia, deluso per non aver generato ciò che stava accadendo. Fantasia si inchina sempre ad Ananke, alla necessità. E Dulcinea fa tornare i giganti ad essere mulini.
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In bagno – Terza Istantanea
Ti devo dire una cosa… sono in….
Le parole erano arrivate all’orecchio ma, come spesso accade, io ero altrove. Francesca voleva dirmi qualcosa di importante, tuttavia prima mi avrebbe dovuto richiamare dall’iperuranio. In quel momento, infatti, le sue parole erano afone e scemavano, pur restando impresse come una foto nella mia mente. Non so se sia una prerogativa o un problema soltanto mio, ma spesso mi devo scusare con la mia compagna per aver lasciato il mio corpo ed essermi addentrato nel mondo delle immagini. La perturbazione dell’aria prodotta dalle corde vocali di Francesca mi aveva richiamato prepotentemente sul sedile di guida. Non per questo io ne avevo carpito il senso. Quindi le diedi attenzione in modo del tutto autoreferenziale… come sempre: Ti volevo raccontare cosa mi è successo qualche giorno fa, le dissi incurante. E fui indifferente del fatto che lei fosse avvampata di rabbia.
Giorni fa… – le iniziai a raccontare –… ero in bagno e mi sono voltato verso lo specchio…
Mentre parlavo fui rapito da un pensiero su quello stesso racconto. Mi estraniai anche da quel momento. Effettivamente, se voglio, sono capace di pensare un’intera vita in un secondo. In quel secondo mi trovai fuori dall’auto e Francesca non c’era più. E poi fuori dal mio stesso racconto.
In quel luogo, pensai, che sono solito guardarmi dopo aver defecato. Quel momento in cui ascolti se il tuo deretano si sia definitivamente congedato dalla peristalsi, è un momento in cui la lettura e l’amore per te stesso occupano il tempo e riempiono l’Anima. Del resto, defecare sarebbe cosa da poco se non fosse per quegli atti d’Anima che richiedono, anzi reclamano, una loro visibilità. Mi riferisco a quelle riflessioni sui massimi sistemi che solo nel gabinetto possono trovare un loro genius loci. Almeno fino a quando i social network non hanno divorato tutto, compresa la nostra capacità di contemplarci. Oggi al bagno non meditiamo più perché siamo presi dal “postare” e dal “likare”.
A volte immagino dirigenti, capi di Stato, Sindaci o compagnia cantando. Li vedo lì, nel loro bagno, sul loro scranno-water, col viso ancora sgualcito dai sogni lasciati sul cuscino e sulle lenzuola. Li vedo inviare stancamente messaggi e “twittare” post sulla rete. Intanto si sforzano con una smorfia. Sono impegnati ad evacuare e, godendo della defecatio, si riempiono le nari dei loro olezzi, organizzano e lavorano. Ho sempre più l’impressione che le comunicazioni rilevanti siano ispirate dalla merda.
Ancora pensai…
… pensavo a come fosse strano che nel mio bagno mosaicato nei toni dell’azzurro, il water sia tra il lavandino e il bidet. Non sempre è così. Anzi, spesso arredatori e architetti preferiscono mettere il lavabo il più distante possibile dal water. Preferiscono ci sia un mediatore come il bidet. Quasi a voler ostentare una separazione tra viso e deretano. Il mio bagno no. Non cercava la pudicizia e vedeva il lavabo pieno di dignità accanto al water. Un tutt’uno tra viso e deretano. Poco oltre il bidet c’era, poi, uno specchio a parete che, impietoso, mi restituiva un’immagine di me che non corrispondeva a quella che avevo nella mente.
Lì, nella mia mente, sono tonico e con spalle larghe, in generale gradevole e appetibile. Lo specchio era la prova infame delle pieghe flaccide della mia pancia, della morbidezza informe delle spalle, quasi inesistenti. Eppure, con un piccolo sforzo, riuscivo a proiettare su quello stesso specchio un’immagine bidet. A metà strada tra un lavandino e un cesso.
Allora! Vuoi guidare come si deve? Proruppe Francesca irritata dalla mia assenza. Io tornai sulla terra e poi dentro l’auto. Mi apparve, come incisa sul parabrezza, la parola “Incinta”. Ebbi un capogiro quando, sempre lei, mi chiese cosa le volessi raccontare rispetto allo specchio del bagno.
Era incinta. Era crogiuolo di emozioni e materia fermentanti. Ma l’orgoglio le impediva di reclamare attenzione. O forse le faceva comodo restare ancora qualche istante in quel limbo. In quella terra di confine in cui, come il gatto di Schröedinger, non eravamo né incinti, né non incinti…
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Io sono Dio. Possessione e nascita di un archetipo [Quarta istantanea]
Conosco la mia compagna piuttosto bene, a parte i suoi segreti.
Quel labbro che si tira su, solo da un lato. So bene come codifichi l’odio, commisto a disprezzo, per la mia inadeguatezza. Ma ancor più è immagine fedele della pessima opinione che io stesso ho di me. Ho sempre ritenuto, e penso a ragione, che la mia attitudine nell’andare nell’immaginazione fosse un difetto di relazione, una fuga. Francesca mi guardava con quell’idea e con un labbro, leporino all’occorrenza, che voleva esprimere anche l’indignazione della donna per non essere stata considerata. Ma in Francesca non vi era solo una donna. Lei mi ha sempre parlato a nome di tutto il genere femminile, defraudato e maltrattato nei secoli dei secoli. Quindi ogni volta che facevo qualcosa del tipo estraniarmi, distrarmi e non ascoltare ciò che mi diceva, poi ne dovevo rispondere. Ma non a lei, quanto all’assemblea di tutte quelle Donne agguerrite di cui si era fatta latrice. Intanto sapevo che i miei reati andavano ben oltre la mia distrazione, erano i reati compiuti da tutti i miei colleghi maschi nei secoli.
Rapitore, stupratore, molestatore, indifferente alle quote rosa e alle pari dignità, pantofolaio che non mette a posto dopo cena, guardatore compulsivo di sport in tv, pingue vecchio all’ingrasso, insensibile, gelido, precoce, lussurioso senza romanticismo, infantilmente romantico senza fallica lussuria, egoista, troppo generoso con gli amici maschi, puzzolente, spendaccione, fannullone, sordo con i figli, violento, aggressivo, stronzo, merda, vaffanculo.
Nessuno dei reati di cui sopra mi hanno visto protagonista. Per questo io non ho mai avuto simpatia per gli uomini. Dovevo rispondere di tutti noi maschi.
Ma Francesca è amazzone e donne di questa risma non pietiscono, non chiedono la carità, non chiedono attenzioni. Anzi! Ne danno in attesa di scagliarsi contro la preda quand’essa avesse abbassato la guardia. Per questo placidamente incarognita mi chiese: “ … dai cosa stavi dicendo sullo specchio?”
Mi aveva detto poco prima di essere incinta. Io ero assorto nei miei pensieri e non avevo ascoltato, ma l’avevo sentita. Ora mi conveniva seguire le sue indicazioni senza cercare di riparare al torto arrecatole. Dovevo continuare a delinquere attendendo che il momento, per lei propizio, in cui si sarebbe scagliata contro di me. Per questo continuai a raccontarle di quella volta in cui ero davanti allo specchio. Questo mi avrebbe permesso di temporeggiare sulla questione di diventare padre e, cosa ben più rilevante, mi avrebbe permesso di non conoscere l’entità della pena ascrittami.
“Quel giorno…” Proseguii a raccontarle di quando quel giorno ero seduto nel water del bagno e:
“ … nel voltarmi verso lo specchio non mi riconobbi affatto. Non mi riferisco al bello o al brutto, ne tanto meno alle spalle o ad altre parti del corpo. Anzi la materia-corpo era quella di sempre. Ma c’era una luce strana nei miei occhi. Il mio corpo non era più l’incarnazione di me Luca. Non ero più Io. Mi scrutavo ma non mi vedevo più, non vedevo il professionista brillante, lo psicologo intuitivo e comunicativo, non vedevo il figlio di mia madre, ne tantomeno quello di mio padre. Non c’era più il fratello dei miei fratelli o il tuo compagno. Io non c’ero più poiché, improvvisamente, mi accorsi di essere Dio!”
“Ma possibile che tu non ti stanchi mai di farti tutte ste pippe mentali?” Mi interruppe lei che era stata momentaneamente abbandonata dal freno dell’orgoglio. “INCINTA! Conosci il significato?”
“… si lo so…! Stavo facendo finta” Risposi sapendo che la mia credibilità era decisamente bassa.
Ora mi chiedo: se fossi il lettore di questo racconto sarei più curioso di sapere la storiella sull’essere Dio, oppure fremerei per scoprire la reazione alla notizia shock? Sacrifichereste un figlio a Dio?
Direi che forse è importante capire se quello nella pancia di Francesca sia o meno il figlio di Dio. So anche che questo è un altro reato di cui dovrò rispondere.
Dunque continuo a raccontare a Voi, mentre con lei mi tacqui, di quando mi accorsi che ero Dio e, sia inteso, non fui invaso da una profonda soddisfazione, come accadrebbe a un narcisista comune. Piuttosto mi sentivo alquanto turbato. Sapevo che non stavo impazzendo anche perché, in qualità di me Stesso, avevo il dono della sapienza. Sapevo di essere savio e sapevo dio essere Dio. Questo non mi sollevò dalla mia, nota a tutti oltre che a me, indole ansiosa e sentii subito il peso della responsabilità. Altro che soddisfazione narcisistica! Ero proprio il creatore del Cielo e della Terra, di tutte le cose visibili e invisibili, onnipotente e, per mezzo di Me, tutte le cose erano state create!
“Cazzo!” Dissi guardandomi in quello specchio. Poi subito pensai di dover cambiare linguaggio e che avrei dovuto assumere una postura più consona a me stesso.
“Stai dritto…!” Mi intimai “… e vestiti come si conviene a uno come te”
Ma qui casca l’asino. Immaginate la difficoltà. Come si veste Dio? Una tunica candida? No troppo. In fondo devo lasciare un’immagine umile e non profetica, insomma non mi devo vestire come si vestirebbe Me Medesimo! Dovrei trovare qualcosa che sembri un po’ rimediato, quasi a dire “guardatemi! Non notate che sono uno che nessuno noterebbe? Talmente anonimo da essere eccentrico.
Ma mentre riflettevo sul look adeguato iniziai a sentire delle voci. Erano sovrapposte e si accavallavano ma potevo computarle contemporaneamente. In quel Caos, che per me era mero specchio di me stesso, infatti in principio era il Caos, ascoltavo tutte le preghiere del mondo e iniziavo a ragionare su quali avrei lasciato inascoltate e quali no. Poi, peggio ancora, sentivo i reclami!
I reclami sono la cosa più antipatica. Nessuno si rende conto che il libero arbitrio poggia sui reclami. Se non ci fossero reclami, non ci sarebbe fede, e non si dovrebbe scegliere se credere in Me o meno. In assenza di reclami, significa che tutto va come si vorrebbe. Niente guerre, morti, malattie, catastrofi, licenziamenti, dolori. Niente. La pace interiore. Ma se si è in pace perché rivolgersi a Me? La guerra non è dovuta all’assenza di Dio, di Me. Piuttosto Me non posso esistere senza la Guerra. Ho più bisogno io del male di quanto il male abbia bisogno di me.
A quel punto, il punto in cui ascoltavo tutti i reclami del mondo all’unisono, mi arrabbiai. Volevo mandare tutti a cagare. “Che ne sapete voi!” Iniziai a rispondere. Guarda, monitora, sostieni, appoggia, lascia cadere, fai vivere il dolore, solleva dal dolore, rendi coerenti i tuoi comandamenti, rendi coerente la necessità dell’incoerenza. “Che ne sapete Voi! Venite qua sul palco! Provateci voi a gestire tutto ciò che avete creato. Vi piace rimanere fermi lì e fare un passo indietro. Comodamente seduti sulle vostre poltrone di velluto rosso vi godete il dramma shakespeariano di un Dio che muore. Tanto sappiate che morto Me, qualcuno di voi dovrà prendere il mio posto e, a quel punto, anche lui morrà. E nel frattempo fate tanto i fighi!”
Ora devo però interrompermi. Voi Immaginate per sei giorni e il settimo riposatevi, poiché il settimo giorno vi racconterò qualcosa in merito alla difficoltà di scegliere un vestito da Dio. E essere Lui, cosa, che allo stato attuale mi agitava meno dell’essere padre di un solo individuo.
Quando mi accorsi di essere così in ansia capii di non essere Dio. Eppure quando Francesca mi disse che eravamo incinti, pensai che qualcosa in comune con Dio, Io lo avessi. Questo senso di potenza soccombeva, però, alla consapevolezza del fatto che, come Zeus evirò, Crono, fossi destinato a cedere le mie fantasie in luogo di quelle che mi avrebbe portato mio figlio, compresa quella sana e sacrosanta voglia di uccidere il Padre.
Si perché ogni volta che incontri e riconosci un maestro lo devi uccidere e io sapevo che per salvarmi la vita sarei dovuto essere un pessimo padre. Intanto Francesca già mi stava dicendo che, per quanto ne sapeva lei, avevo già salva la vita.
[Continua domenica 20 Maggio…]
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Un bravo genitore non piace ai figli – Quinta Istantanea
Mentre le raccontavo di quella volta in cui avevo pensato di essere Dio, Francesca guardava il cellulare e rispondeva a un messaggio su Wa. Guardavo le dita che tamburellavano sullo schermo. Non ho mai amato quelle mani. Dita lunghe e affusolate, vagamente scheletriche ma sullo stile di Modigliani. Il Pan che è in me cercava le unghie lunghe, degno finale di dita meno lunghe di quelle di Francesca, e un po’ più in carne. Invece io osservavo spesso quelle mani, simili a ragni e pronte a brandire un’arma, e le temevo. In compenso il suo volto era decisamente afroditico, anche in quel momento in cui, bellamente, mi aveva lasciato a raccontare la mia esperienza di transustanziazione in solitudine. Io come un prete benedicente. Lei lì seduta, chattando. Complici. In una sorta di riedizione della benedizione durante la messa, lei attendeva che dicessi “Mistero della fede” per potersi svincolare da quel raccoglimento. Mi chiesi, a quel punto, per l’ennesima volta, ma che faranno mai i fedeli in ginocchio in chiesa durante la benedizione? Pensano, come Francesca, a quello che vogliono in attesa di andare in pace. Ho sempre avuto l’impressione che, se avessi potuto interrogare i fedeli in quel raccoglimento, mi avrebbero risposto come un uomo subito dopo aver fatto l’amore. Mi avrebbero risposto che stavano pensando a qualsiasi cosa non avesse nessun nesso con quello che stava accadendo o era appena accaduto. La gente, insomma, durante la transustanziazione, semplicemente si distrae, come Francesca da me.
Ma, del resto, era distratta come me poco prima, quando lei aveva pronunciato quella parola simile a un big bang, “INCINTA”. Altrove, in attesa che la messa finisse, attendevo il mistero della fede. Attendevo distraendomi perché, ecco cosa è la distrazione, è non pensare a ciò che sta avvenendo perché troppo grande per contenerlo. E anche Francesca si distraeva dal mio racconto per gli stessi motivi.
Le chiesi a chi stesse scrivendo con il tono di chi intanto si scusava e ostentava interesse. Lei rispose, stringendo il cellulare come se stesse fendendo l’aria con una spada: “Sto scrivendo a te…” e, nella pausa, caricò la voce e i polmoni, si preparò a dire la parola che ben si accompagna al fendente finale “…IMBECILLE!” e mentre lo gridava il cicalio del cellulare le faceva eco, a dire che il messaggio era stato recapitato.
“Dai che ti ho sentito!” le sorrisi colpevolmente e poi proseguii ridendo tra la disperazione e la contentezza. “…e ora ti aspetti che ti dica se sono contento? Quindi te lo dico. Ti dico che sono contento perché finalmente avrò delle poppe da terza e più e non questa seconda scarsa”.
Sappiate che un ansioso non è mai felice di una notizia. Che sia bella o brutta non importa. Ciò che conta è l’effetto che avrà sulla sua ansia. Quindi dissi quelle parole per prendere tempo e con tono di voce scherzoso. Ero eccitato e monitoravo l’effetto di quella notizia sorridendole. Infine, per rendere solenne il momento, aggiunsi: “ Anzi secondo me sono già cresciute, Questa maglietta ti sta da Dio, per me Stesso!” La baciai continuando a tenere lo sguardo sulla strada.
Avevo appena parlato del modo in cui i vestiti stavano sulle sue curve e lei sorrise. Poi chinò leggermente la testa e sporse il mento in avanti affinché il chinamento fosse più efficace. Gli occhi guardarono verso il suo petto e poi verso tutto il suo corpo. Una ricognizione rapida, rigorosa e sempre con il medesimo esito infausto. Insomma, sapete cosa succede quando ci si ritrova a parlare di vestiti con una donna, specialmente se quella donna è la tua compagna e vi trovate in un negozio? Niente di particolare, se non che qualsiasi parola direte sarà usata contro di voi. Come in un negozio, dentro la macchina, la sua pessima opinione di sé doveva trovare un colpevole. E io ero lì, vicino, disponibile e colpevole.
Uscendo dal camerino Francesca aveva quella stessa aria inquisitoria. Mi osservava con l’occhio sorridente e da cerbiatta che chiedeva, mestamente, una promozione, ma non del vestito ma di lei. Con le spalle, intanto, quella mestizia lasciava il posto alla potenza guerriera di chi mi intimava di rispondere la cosa giusta. Io, dal canto mio, negli anni ho sviluppato strategie per fronteggiare quella situazione.
Dunque. Possiamo avere diverse condizioni e cercherò brevemente di riassumerle. 1) Il vestito che è stato scelto nel negozio è bello e le sta bene; 2) Il vestito che ha scelto è bello, ma le sta meno bene (mi raccomando di usare questo stile di linguaggio tipico della Statistica inferenziale. Mai dire “minore” in statistica, eventualmente dire “non maggiore”. Non ho mai compreso del tutto il senso di questa norma dialettica nella statistica, fin quando ho sperimentato che dire “meno bene” invece che di “ti sta male”, può sollevarti da molte rogne e garantirti una notte indimenticabile con la tua amata); 3) Il vestito fa cagare, ma lei è come sempre bellissima; 4) infine, il vestito fa cagare e lei quel giorno “non aiuta” (Ricorda la statistica). La risposta che potete dare sarà sempre la stessa. Unica soluzione. Qualcosa del tipo “mi piaci molto”, se ti piace. Anche se non ti piace e sei un bravo bugiardo. Ma se non sai dire bugie ricorda di non parlare mai di ciò che non va ma sempre di ciò che va. Distogli la sua attenzione da quel capo di vestiario e ponila su un altro. Se vuoi, puoi dire qualcosa del tipo “ A me piace molto quest’altro vestito”. Commenta sempre il vestito e rendilo colpevole. Se invece è bella il merito è sempre e solo il suo.
Ma soprattutto, ricordate di non fare pause perché tanto più lunga è la pausa tanta più creatività ci avrete messo per formulare la risposta. E questo lei lo sa! Ma, soprattutto, lo sanno tutte le donne defraudate nei secoli, quelle che lei deve riscattare. Inoltre, non solo ha già deciso se comprarlo o no, ma ricorda che tu hai come unico ruolo quello della colpevolezza dei suoi difetti.
Io però non sono così. Io sono limpido, diretto, sadico, pettegolo e non posso fare a meno di lei. Quindi le dico sempre la verità, anche se questa, la verità, comprende il fatto che Francesca, quel giorno, magari, e dico magari, non è proprio in forma. Io mi tengo la colpevolezza ma non la verità. Sempre. Per questo le dissi che la maglietta le stava da Dio. Lei, intanto, uscita dal camerino della segretezza, stavolta non mi chiedeva come le stesse l’abito da madre, mi intimava , piuttosto, di iniziare a fare i conti col fatto che lei non aveva l’abito, ma era una Madre.
“E adesso che facciamo?” mi chiese con quegli occhi che volevano esprimere preoccupazione. Che volevano ostentare una matura consapevolezza. Ma che, insieme ai suoi denti bianchi, disegnavano quel sorriso tipico che è a metà tra chi deve entrare in un parco di divertimenti e chi sta per fare l’amore nel bagno del ristorante. Eravamo incinti e non sapevamo, dall’alto dei nostri 30 anni, di media, cosa si deve fare in certi casi. Non sapevamo da quanto lo eravamo e non sapevamo come fare il calcolo delle settimane di gravidanza. Invece, come tutti , stavamo cercando di capire quale volta era andata in porto. Io, in più, come molti maschi, fantasticavo su quell’eroico unico spermatozoo vincente facendone un idolo.
Dall’altra parte fui invaso dal Padre. D’un tratto mi accorsi che chi sarebbe nato avrebbe avuto delle aspettative verso di me. E, sia chiaro, le aspettative del figlio avrebbero superato le mie aspettative sulle sue aspettative. Insomma fare un figlio ci da un’unica garanzia, ossia avere un essere vivente in più che ci manderà a cagare un giorno. Iniziai ad avvertire che avrebbe preteso da me l’apprezzamento. Ma un figlio è bello perché è tuo figlio e non perché è bello. Essere padre non significa che ti piaccia, ma che gli vuoi bene anche se non ti piace. Iniziai, quindi, a pianificare con quali parole avrei un giorno detto a mio figlio o mia figlia, che non mi piaceva, ignaro del fatto che lui, o lei, di là dentro stava facendo la stessa cosa. Ecco! D’un tratto compresi cosa fosse il legame tra un genitore e un figlio. L’amore di un genitore per un figlio è direttamente proporzionale alla quantità di cose che non ci piacciono di lui e tale quantità è la stessa misura di ciò che di noi non piace a lui.
Mi feci un in bocca al lupo e continuai a guidare. Mi avviai alla cassa, ormai ero fuori dal camerino.
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