Biografia Emanuele Trevi
Emanuele Trevi: vincitore del Premio Strega 2021! Un premio che quest’anno sa un po’ di psicologia.
Emanuele Trevi è uno scrittore italiano, uno dei critici più promettenti della nuova generazione, figlio dello psicanalista junghiano Mario Trevi, sposato dal 2009 al 2011 con Chiara Gamberale [scrittrice italiana].
Nel 2014 è intervenuto alla Tagung presso Eranos [Ascona] sul tema “Cura del mondo e cura di sé”. Io, insieme a Valentina Marroni, eravamo lì, in quel luogo dell’anima.
È stata la prima volta che abbiamo avuto l’onore di conoscere Emanuele Trevi, che successivamente abbiamo intervistato per L’Anima Fa Arte, in questa squisita intervista che riporto di seguito.
Buona lettura!
Michele Mezzanotte: La psicologia è un discorso sulla psiche o sull’anima. Un discorso che è fatto di letteratura, ovvero di lettere, parole e frasi. Psiche e letteratura hanno un legame imprescindibile che possiamo ricordare anche attraverso il premio letterario alla memoria di Goethe, dato a Sigmund Freud nel 1930 a Francoforte. La lettera è una parte del discorso ma anche una parte della psiche; una psiche composta da queste “incisioni”, “graffi”, a volte caotici, a volte organizzati in parole e discorsi.
Nella Sua esperienza, in qualità di scrittore e critico letterario, come si svela questa relazione?
Emanuele Trevi: Quello che cerco di insegnare durante i miei corsi di scrittura, parte proprio dalla relazione tra due poli: da una parte c’è la psiche, che assorbe ogni tipo di linguaggi in una specie di enorme sedimento sotterraneo, li frantuma e li rende irriconoscibili; dall’altra parte di un ideale arco energetico c’è il dizionario, cioè le parole e il loro significato stabilito e comune per tutti, e nel dizionario c’è anche la letteratura intesa come istituzione, tradizione, sistema di regole. Chiaramente noi vorremmo esprimere direttamente la psiche, ma la psiche parla un linguaggio che nemmeno noi potremmo comprendere. Mi viene da dire: è il monologo di uno psicotico, un delirio. Quindi bisogna che questo psicotico esca dal suo rifugio, si metta in relazione con quanto avviene dall’altra parte. Deve insomma accettare un compromesso: parlare con parole comprensibili. In qualche maniera deve tradirsi, se il massimo dell’autenticità consiste in un linguaggio totalmente privato e personale, comprensibile solo a chi lo parla. Ognuno di noi deve trovare il punto che più gli conviene, intermedio, tra i limiti opposti di una completa solitudine e di un completo conformismo. Questo è il lavoro più faticoso che si impone nello scrivere letteratura.
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Michele Mezzanotte: James Hillman nel suo volume “Storie che curano” propone lo psicoterapeuta come “operatore di storie”, e il paziente in un continuo “ri-raccontarsi in rinnovate letture immaginative”.
Come si inserisce la letteratura all’interno di un’ottica della cura di sé?
Emanuele Trevi: Il libro di James Hillman a cui si riferisce mi ha molto colpito e ci sono tornato sopra più volte. È un’opera che offre un vantaggio cognitivo inestimabile, quello di riferirsi a una situazione comunicativa concreta, quella creata dal rapporto tra terapeuta e paziente. Anche perché di solito le teorie della narrazione, anche quelle molto raffinate, mi sembrano un po’ campate in aria, basate su astrazioni valide in ogni tempo e in ogni luogo. Quanto alla “cura di sé“, mi sembra che la chiave giusta sia quella suggerita da Pierre Hadot nei suoi studi sulla filosofia tardo-antica. Più e meglio di Foucault, Hadot considera la scrittura come un elemento indispensabile, e non accessorio, della cura si sé. Ma a sua volta la scrittura è legata al concetto fondamentale di “esercizio”, “esercizio spirituale”.
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Michele Mezzanotte: Per la prossima domanda prendo spunto dalle parole di Albert Camus nello “Straniero”: “Allora non so per quale ragione, c’è qualcosa che si è spezzato in me”
Ci può fare degli esempi di casi letterari che descrivono questa immagine del passaggio dall’equilibrio alla follia?
Emanuele Trevi: Mi hanno molto colpito gli articoli di Fitzgerald sulla sua depressione, tradotti in italiano con il titolo “Il crollo” (“crack-up” nell’originale). Anche un lettore d’eccezione come Cioran si era reso conto del valore di questo racconto, lo paragonava alla “notte oscura” di Juan de la Cruz.
Michele Mezzanotte: La Notte Oscura di De La Cruz è una poesia, mentre il “Il Crollo” di Fitzgerald è una confessione in tre atti dello stato depressivo dello scrittore americano. Nel 2014 al Tagung organizzato ad Eranos, lei è intervenuto esponendoci la sua teoria della cura di sé attraverso la scrittura. Tra gli esempi letterari da lei citati ricordo i taccuini di Marina Cvetaeva. Nei taccuini, molto più che nelle sue poesie, benché esse fossero magnifiche, Marina riusciva ad esprimere se stessa. In questi taccuini è inevitabile non percepire come Marina sia in costante autoanalisi e come questi fossero per lei la cura della sua sensibile ed originale anima ribelle: “In me tutto è incendio”.
Lei crede che la scelta dei diversi stili narrativi possano incidere o veicolare meglio – o peggio – la funzione della scrittura come cura dell’anima?
Emanuele Trevi: Nella domanda si nasconde già la risposta, almeno per ciò che riguarda la mia personale concezione del rapporto tra scrittura e cura di sé. Cercherò di spiegarmi: dal punto di vista del giudizio di valore, è ovvio che La notte oscura “è più importante” di tre articoli di Fitzgerald pubblicati su una rivista. Ma Juan de la Cruz adopera un linguaggio più strutturato, di cui conosce alla perfezione le regole (metrica, rima eccetera). Quello che mi premeva trasmettere al seminario di Eranos è il fatto che la scrittura non viene “dopo” l’atto di coscienza, come una specie di trascrizione, ma è l’atto stesso di coscienza. Pierre Hadot aveva capito benissimo questo punto essenziale, ma il suo materiale è antico, e gli antichi non attribuivano un gran valore alla scrittura semplicemente diaristica, avevano bisogno di calare la cura di sé in certi generi letterari ben precisi, come il dialogo. Accanto ai quaderni di Marina Cvetaeva, ho parlato di quelli di Simone Weil e di Kafka. Sono tutti casi moderni, e noi moderni abbiamo sempre bisogno di liberarci dei vincoli formali, dei generi letterari e di tutto ciò che nella scrittura è “impersonale” e codificato. Per questo la prosa è un veicolo più efficace della poesia.
Michele Mezzanotte: Viviamo in un mondo di terrori antichi e moderni. Siamo circondati da piccoli terrori quotidiani (come carni tossiche, wifi cancerogeno, aria inquinata…), e grandi terrori su scala nazionale (come catastrofi naturali, terrorismo, politica, crisi economica…). Ogni periodo storico ha la sua letteratura, la sua arte e il suo terrore. Quale è il lato oscuro e terrifico della letteratura moderna e che immagine riflette nella cultura contemporanea?
Emanuele Trevi: Il problema è che la letteratura, almeno dalla rottura romantica in poi, è sempre il discorso del singolo, la traccia di una reazione assolutamente individuale alla pressione del mondo. Dunque, evocando una paura collettiva, lo scrittore rende semplicemente riconoscibile agli altri qualcosa che per definizione è innominabile.
Michele Mezzanotte: In relazione alla precedente domanda, la letteratura insieme alla psicologia possono inserirsi in un’ottica di cura del mondo?
Emanuele Trevi: Già, ma che cos’è, precisamente, il “mondo” ? In altre parole: in che misura il mondo è qualcosa che diventa interiore da esteriore che era? La scrittura è una prodigiosa membrana, rivolta da un lato verso l’interno – o se vogliamo la psiche, e dall’altro verso l’aperto, l’incommensurabile.
Michele Mezzanotte: Qual è il personaggio letterario che più la coinvolge in questo momento storico della Sua vita? Perchè?
Emanuele Trevi: In genere, molti personaggi di Stendhal e soprattutto il Fabrizio del Dongo della “Certosa di Parma”. Ecco, direi che è lui il mio “eroe”, perché è un individuo autentico, mosso soltanto da ciò che lo appassiona, capace di liberarsi dell’oppressione sociale semplicemente vivendo come se la società non esistesse – la sua è una libertà che non comporta uno spirito necessariamente antagonistico, semmai discende proprio dall’accettazione delle regole del mondo che l’individuo non può mai cambiare.
Michele Mezzanotte: Infine, suo padre, Mario Trevi, è stato un grande portavoce della psicologia analitica in Italia, può raccontarci un aneddoto relativo alla sua personalità, che possa ricordarlo come uomo e come psicoanalista?
Emanuele Trevi: Di mio padre mi colpiva molto la stanchezza che accumulava lavorando. Per il lavoro di analista, considerava del tutto inadeguato l’aggettivo “sedentario”. Mi diceva spesso che è vero, si sta seduti, ma era come camminare sulla muraglia cinese. L’attenzione necessaria lo sfibrava, in un certo senso lo vampirizzava.
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