Introduzione
La solitudine accompagna la lucida percezione della nostra individualità ed è a sua volta accompagnata dall’esperienza della separazione e del rifiuto. È come se il dolore coagulasse la nostra personalità, la rendesse viva, vibrante, e assieme intimamente sola. Quel dolore è il nostro e nessuno può o vuole sentirlo.
È difficile digerire la scelta del nostro amato che ha rifiutato deliberatamente il nostro amore. Ci chiediamo cosa abbiamo noi di diverso o di insopportabile e se siamo fortunati forse riusciremo a capirlo.
È amaro ammetterlo, ma nella solitudine che ci si impone c’è un tesoro e questo tesoro va afferrato. Forse la solitudine va fatta fiorire perché lì c’è il seme della nostra differenza individuale.
Etimologia: solitudine
Ci rivolgiamo al dizionario etimologico per comprendere l’intimità della solitudine. Seppur personale è un’esperienza condivisa e nella lingua ritroviamo la sempre viva immaginazione dei popoli che tesse dei ponti tra l’individuo e il collettivo.
Solitudine viene dal latino solus che sta per il nostro solo italiano. Secondo alcuni solus deriva dalla radice indoeuropea se-/so- che indica separazione mentre per altri origina dal latino sollus che vuol dire tutto, intero, unico.
Forse l’esperienza della solitudine ci porta a riflettere che ciò che è separato non è un’infruttuosa metà, ma è un seme intero che va fatto fiorire.
Il mito di Eco e Narciso
Come Freud per primo si rivolse alla mitologia noi ci rivolgiamo al mito di Eco e Narciso allo scomodo scopo di intensificare la solitudine fino al punto che ne diventi visibile la natura completa e non solo la metà dolorosa.
Narciso nacque dalla ninfa Liriope e dal fiume Cefiso. Il veggente Tiresia profetizzò a Liriope che il figlio sarebbe vissuto fino a tarda età a patto che non conoscesse mai sé stesso. Narciso dunque respinse ogni amante. Una celebre innamorata fu la ninfa Eco. Poiché Eco aveva distratto Era con delle favole mentre le amanti di Zeus fuggivano venne punita e gli fu imposto di non potersi più servire della sua voce se non per ripetere le ultime parole dette da qualcun altro. Eco, dopo non poche difficoltà comunicative, provò ad abbracciare Narciso in segno d’amore, ma questi la rifiutò bruscamente.
Eco trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo d’amore e di rimpianto, finché di lei rimase soltanto la voce (R., Graves, I Miti Greci, Longanesi, Milano, 1963, p.260).
Artemide infine volle vendicare Aminio, un amante di Narciso che si suicidò per amore, e fece in modo che Narciso si innamorasse senza poter soddisfare la propria passione.
Un giorno Narciso si avvicinò ad una fonte mai contaminata da bestie o da rami caduti e si innamorò della sua pura immagine riflessa nell’acqua. Mentre Eco assisteva alla scena Narciso, non riuscendo ad abbracciare e a baciare l’immagine riflessa, si trafisse con la spada e ne morì. Dalla terra fecondata col suo sangue nacque il fiore narciso da cui i greci distillavano un unguento con cui curare le malattie dell’orecchio e i geloni, e con cui aiutavano le ferite a cicatrizzarsi.
Eco e la solitudine
La solitudine che stiamo mettendo a fuoco è sia la solitudine di Eco sia quella di Narciso. Eco, rifiutata, perse corpo e di lei rimase solo la voce. Mi viene in mente il dilemma del filosofo Berkeley che si chiede se l’albero che cade nella foresta quando non c’è nessuno ad ascoltarlo fa rumore.
Eco è reale se non c’è nessuno ad ascoltarla? Noi siamo reali se non c’è nessuno che ci ami?
Questa esperienza del perdere corpo, perdere solidità perché ci si separa è quella che fa Eco e quella che fa molto spesso l’individuo divenuto single (in italiano solo). Se un uomo piange solo in casa quella sofferenza ha valore se l’amata non c’è più?
La risposta del filosofo è no; il pianto non ha valore se nessuno lo ascolta. La risposta dello psicologo è sì; quel pianto ha valore perché la psiche è sia una, sia multipla, sia oggetto che osserva sia oggetto osservato. Il pianto, l’amato e l’amore sono parti in relazione ed è la solitudine che ne fa una dinamica psicologica.
Questo punto di vista ci porta ad ammettere che l’individuo è un intero ma è anche divisibile. Ciò che si ama nell’altro è anche una parte interiore che si è proiettata sull’altro, direbbe Jung. Eco allora diventa la immagine dell’altro che dentro di noi ripete le sue ultime parole e ci tormenta nella nostra solitudine. Eco perde corpo, si sveste della sua carne e diventa un tormento psichico privato e non più di coppia.
Narciso e la separazione
Narciso si innamora della sua immagine riflessa e in quel momento si sdoppia, da uno diventa due. Si accorge improvvisamente che l’altro da amare è lui stesso. Da individuo (individuo vuol dire indivisibile) diventa diviso, separato. Tale separazione è mortale per il fragile Narciso perché porta conoscenza di sé.
Per bocca di Tiresia sappiamo che l’innamorarsi è metafora della conoscenza di sé e altrettanto chiaramente osserviamo che per conoscersi occorre dividersi o separarsi. In ogni separazione una coppia muore.
La solitudine e il dolore che ci coglie nella separazione è dovuto a Narciso che sta morendo dissanguato perché non può costituire un nuovo intero tramite l’altro. Se è la separazione che ci fa soffrire il mito ci dice che le immagini che ci tormentano sono le nostre e con esse dobbiamo congiungerci per costituire un nuovo intero. Ciò che deve morire è dunque il Narciso che impiega le mani e la bocca per congiungersi ad un’immagine che non è corporea.
Da tutto quel dolore e da quel sangue fiorisce il narciso che ha interessanti proprietà terapeutiche: cura le voci che tormentano le orecchie, fa cicatrizzare le ferite e riscalda il freddo della solitudine. Quando la psiche affoga nelle sue immagini impara a curarsi mentre impara a separare ciò che è materiale da ciò che è psicologico.
Conclusioni: creatività della separazione e della solitudine
Narciso evitò di conoscere sé stesso sfuggendo a ogni relazione. Questo punto è squisitamente junghiano. La persona con cui formiamo una coppia ha delle caratteristiche che fanno parte della nostra psiche. L’altro è immagine viva per noi e mentre lo conosciamo stiamo conoscendo noi stessi.
Jung parlava a proposito di proiezione d’Anima dell’uomo sulla donna e proiezione dell’Animus della donna sull’uomo. Ognuno proietta il suo lato maschile o femminile sull’altro e ne fa esperienza nella carne della vita non accorgendosi che sta facendo un’esperienza psicologica.
Il femminile fa parte dell’uomo come sua femminilità inconscia, ciò che io ho designato con il termine Anima (C. G. Jung, Opere, V, p.425)
La separazione della coppia pone la necessità psicologica individuale di ritirare dall’altro la parte della nostra psiche che vi abbiamo proiettato e di cui non ci siamo occupati. Abbiamo lasciato fare il maschile all’uomo e il femminile alla donna. Paradossalmente potremmo essere psicologicamente separati anche stando in coppia.
L’esperienza della separazione è il momento privilegiato in cui avviene uno scollamento della sovrapposizione tra l’immagine interiore e l’amato. Questo momento è sofferente e creativo insieme.
La solitudine, la cui etimologia rimanda all’intero, ci riporta dritti al punto. Quelle voci e quei riflessi divengono per noi non semplici ricordi, ma immagini della nostra Psiche. Quindi quando si dice “quella donna o quell’uomo è parte di me” tramite la metafora si sta svelando una verità profonda che va ascoltata. L’Anima esiste prima dell’incontro di quel particolare individuo amato.
Narciso ci indica anche un’altra verità psicologica. Per conoscere sé stessi ci si divide e questo vuol dire conoscere insieme alle immagini che siano esse proiettate nell’altro o interiori. L’intero dunque è la Psiche e il suo fiorire cura il dolore della solitudine e della separazione esteriori.
Buonasera, articolo interessantissimo e assolutamente veritiero. Una domanda mi è sorta spontanea: non è quindi realistico un amore che dura decenni, o se è realistico il prezzo da pagare è non conoscere mai sé stessi, non fiorire?
Buonasera Sara. La relazione concreta inibisce l’individuazione solo se non ci si accorge mai del livello psicologico proiettato nel partner. In tal caso la relazione concreta diventa il luogo del manifestarsi di potenze archetipiche che poco hanno a che vedere con gli individui. Ad esempio l’uomo tenderà a recitare un ruolo maschile stereotipato e la donna un ruolo femminile stereotipato. In questa situazione non ci sono due individui che hanno una relazione, ma due archetipi che attraverso due individui ricercano la relazione. In questo stato si può permanere per decenni e anche con godimento, intensità e soddisfazione. Solitamente i problemi degli individui in questo tipo di relazione risiedono nel cercare di essere il più aderenti possibili all’archetipo e anche tra di loro si rimproverano l’un l’altro di non essere abbastanza maschili o femminili. In questa ricerca di aderenza al canone rifuggono dalla conoscenza di sé, vissuta come tradimento della coppia. Per conoscere sé dovrebbero disobbedire al canone e rischierebbero di far naufragare quindi la relazione. Altro conto è la relazione tra individui che riconoscono di proiettare sul partner le proprie fantasie archetipiche. In questo tipo di relazione, che anche può durare decenni, i due individui non sottoporranno eccessivamente l’altro alla pressione conformista dell’archetipo perché sanno che quel gioco delle parti è un gioco di relazioni tra funzioni psichiche. L’individuo sarà libero di conoscere sé e stare in coppia allo stesso tempo. Anzi, la coppia tra due individui che riconoscono le proiezioni psicologiche, si sottoporrà essa stessa ad un processo individuativo. Il risultato sarà un legame tra due individui particolari che stanno insieme per le loro peculiarità. Il legame sarà più profondo perché più esclusivo. Spero di aver soddisfatto la sua domanda