Quando il giudizio è una palla al piede: l’ottica punitiva
Ogni uomo è giudice di sé stesso e si punisce a dovere (Patricia Highsmith)
Siamo soliti associare al giudizio la punizione, motivo per cui gli siamo ostili. Sono asprissime infatti le critiche che vengono rivolte a noi stessi: “avresti dovuto fare meglio”, “sei incapace”, “meglio che cambi mestiere”, “non sei abbastanza”. Di queste valutazioni ne faremmo volentieri a meno, ma è difficilissimo sradicarle. Ci accompagnano infatti da sempre e nessun genere di pensiero positivo può ucciderle definitivamente. Ma chi le produce?
Ad un primo sguardo diremmo che siamo noi a produrle, ma ad una seconda occhiata notiamo subito che i verbi espressi sono coniugati alla seconda persona singolare: “TU non vali”. Questo aspetto, che passa inosservato agli occhi sonnolenti della coscienza, sottolinea che nella mente c’è almeno un altro Io. Freud lo chiamò Super-Io e ancora prima Censore.
Il Censore è quel personaggio appollaiato sulla nostra spalla che ha la pretesa di mettere becco sull’appropriatezza o meno di ogni nostro desiderio o azione. Lo viviamo come una carceraria palla al piede che ci trascina a terra e trasforma ogni scelta in un inerziale e dolente rimuginio. Prendere i giudizi del Censore come punizioni fa di noi dei prigionieri che anelano alla libertà. Dobbiamo liberarci del giudizio o dell’ottica punitiva che vi apponiamo sopra?
Il giudizio nel sogno
Per rispondere alla domanda prestiamo un occhio ermetico al giudizio osservando un sogno tipico. Sognare di tornare tra i banchi di scuola per dover sostenere un compito o un’interrogazione è tra i più classici.
Probabilmente hai sognato almeno una volta di essere alle superiori e di dover sostenere l’esame di maturità o un’interrogazione e, come allora, di non aver studiato. Forse ti senti inquieto perché il ricordo delle regole scolastiche è ancora abbastanza vivido da non farti neanche pensare di alzarti e andartene. Ti chiedi invece cosa diavolo ci fai lì insieme agli studenti. Forse provi anche a rassicurarti dicendo a te stesso che ormai sei adulto e, tempo qualche minuto, il disguido per cui sei stato richiamato a scuola verrà sciolto e potrai tornare alla tua vita senza essere giudicato. Invece la scena onirica prosegue fino all’interrogazione. Succede che tu non sappia rispondere, non sai niente. Cosa è che il sottoporti al giudizio scolastico sta indicando che non hai appreso? Di quale Storia, Geografia, Autore psicologico sei rimasto digiuno?
Il giudizio svela che di quella particolare materia psicologica, che l’immagine psichica dell’insegnante ha tentato di insegnare, non si è appreso nulla. Sembra quindi che il giudizio non sia lì per umiliarci, ma per indicare con la sua violenta schiettezza una realtà psicologica a cui non abbiamo prestato attenzione e lo fa inscenando un esame, una prova, un rituale.
La voce del giudice tenta di richiamare la giusta attenzione su ciò che non abbiamo colto. Dobbiamo quindi liberarci dell’ottica punitiva con cui guardiamo al giudice. In questo modo il giudizio diventa una risorsa che sa indicarci dove rivolgere l’attenzione.
Funzione psicologica del giudice
Il giudice è l’interprete della giustizia (San Tommaso d’Aquino).
“Giudice” viene dal latino “iudex” e indica colui che pronuncia la formula religiosa del diritto. La radice “ius” in origine indicava una formula religiosa avente forza di legge. Il giudice è preposto a rendere giustizia, è un arbitro, un critico. Le sue qualità sono il senno, la prudenza. Il giudice è neutrale e le sue enunciazioni implicano diritti, obblighi e doveri.
Il giudice sapientemente separa, mette in fila e valuta. Psicologicamente corrisponde alla funzione che differenzia gli immaginari ed equilibra il loro funzionamento. Osserva paziente e con zelo il funzionamento psichico per poi guidarlo con giudizio.
Il giudizio fa male, ma non punisce
Le parole del giudice feriscono per la loro fermezza e neutralità. Non ammettono replica o persuasione, sono ineluttabili. Contro il giudice la polemica non può nulla e il relativismo collassa. Il giudice inchioda al proprio destino. Ciò che fa male è ricevere il paletto di frassino nel cuore che equivale all’essere riconosciuti per quello che si è, ben oltre le menzogne che raccontiamo e ci raccontiamo.
L’occhio del giudice denuda e la sua neutralità impersonale butta giù la nostra recita teatrale.
Vivere come punitivo l’operato del giudice inoltre impedisce di guardare cosa la sentenza indichi, il messaggio viene perso mentre ci facciamo scudo con il dolore.
Conclusioni: imparare a percepire il giudizio
Più l’atteggiamento che abbiamo nell’osservare noi stessi è torbido, mistificatorio e giustificatorio più l’incessante e procedurale incedere del giudice terrorizza. Il giudice fa luce su ciò che nel privato facciamo e abbiamo fatto di lesivo nei confronti della comunità psichica e mira a ristabilire armonia tra le parti.
Oltre ciò il giudizio spoglia dell’opulenta superficialità l’individuo e lo riduce all’essenziale. Lo sguardo del giudice è lo stesso dello scultore che con giudizio toglie, scalpellata dopo scalpellata, il marmo superfluo e libera (rende giustizia) l’immagine imprigionata nella pietra. Il suo occhio è un occhio artistico. Nostro compito è reggere la vista dell’essenziale, accettare il giudizio come se fosse una rivelazione.