Il 27 agosto ricorre il settantesimo anniversario dalla morte di Cesare Pavese
Nel 1962 Italo Calvino che era redattore per la casa editrice Einaudi ricevette dal giornalista Lorenzo Mondo un taccuino di una trentina di pagine di cui avrebbe molto volentieri evitato la lettura. Si racconta che mentre leggeva la fitta scrittura di quei fogli il suo volto impallidiva tanto era sconvolgente il suo contenuto. Decise quindi di mettere il taccuino in cassaforte e di lasciarlo lì escludendo ogni possibile forma di pubblicazione.
Di cosa parlava il taccuino?
Lorenzo Mondo aveva trovato un diario di Cesare Pavese risalente agli anni 1942-43 quando era rifugiato nella campagna piemontese, prima a Serralunga di Crea poi al Collegio Trevisio di Casale Monferrato. Era questo il testo che tanto sconvolse Calvino. Solo nel 1990 una parte del taccuino fu pubblicato su La Stampa mentre l’edizione integrale è uscita in questo periodo con il titolo Il taccuino segreto, Editore Aragno, a cura di Francesca Belvisio.
Cosa c’era scritto di così terribile in quel taccuino che per giunta è sparito e di cui restano solo le fotocopie?
In breve lo sintetizzano le poche parole di Mascheroni su La Stampa nell’ormai lontano 8 agosto 1990: «Lui, antifascista e poi iscritto al Pci, in quei foglietti si lancia in invettive contro gli antifascisti e la loro stupidità, riflette sul fascismo come disciplina di vita utile agli italiani (il fascismo che ha il grande merito di dare al popolo italiano una vera visione dello Stato), parla con tono indulgente di Mussolini e della Repubblica di Salò».
Insomma, uno degli scrittori, poeti e traduttori più importanti della letteratura italiana del ‘900 appartenente alla corrente intellettuale antifascista e di sinistra in poche pagine sembra riveli aspetti ideologici estremamentente controversi tanto da far scrivere a Fernanda Pivano sul Manifesto all’epoca: «Io l’ho sempre idealizzato come un antifascista puro. Leggere questo taccuino mi fa sentire come se mi avessero pugnalato alla schiena (www.il sussidiario.net, 10/8/2020)».
Il sentimento scandalistico che gravita intorno a quest’opera ci aiuta a riflettere su alcuni aspetti psicologici che riguardano la sfera profonda della personalità, quello strato che sotto la veste attraverso cui si appare ospita le più complesse e contraddittorie sfumature dell’identità umana.
Come si misura l’indice di maturità di un individuo?
Spesso mi sono trovato a riflettere su questo argomento. Quando ci si domanda quale possa essere il metro per definire quanto una persona sia sviluppata si scivola immancabilmente in valutazioni morali dove non è ammesso avere lati oscuri.
Per esempio la coerenza è un termine assai ricercato per giudicare positivamente un individuo. La coerenza nelle idee, la corrispondenza tra azioni e parole, la costruzione di un’identità e di un pensiero ordinato e non contraddittorio, sono valori che elevano il rispetto e l’ammirazione tanto che scovare atti d’incoerenza è una pratica assai diffusa per creare discredito su coloro che hanno successo. Per esempio le parole scritte da Pavese nel suo taccuino segnano con un sfregio l’integrità ideologica del poeta al punto da aver spinto i più fedeli amici a ritenerle un falso.
Oltre alla coerenza un altro valore che eleva l’individuo è la trasparenza o la sincerità dei propri giudizi. La scoperta di un’indulgenza verso Mussolini non può essere conciliata con un iscritto al Pci e poi corrispondente per l’Unità.
Dopo la coerenza, un altro metro morale tipico è l’innocenza. Penso a Forrest Gump di R. Zemeckis (1994), un eroe moderno che rivela l’anima buona americana ma anche un po’ quella che universalmente si giudica tale. Si è buoni se si è limpidi come un bambino, una sorta di stupidità genuina che dimostra la mancanza di malizia e di secondi fini che molto ben si sposa con la coerenza. Infatti per essere coerenti bisogna essere inevitabilmente semplici come il profumo del bucato lavato al sole o la bellezza del viso acqua e sapone. La banalità del bene. Pavese di certo non appare banale.
I diari razzisti di Bronislaw Malinowski
Il taccuino di Pavese mi ha portato alla memoria un altro controverso scritto, Il giornale di un antropologo (Armando ed. 2016) di Bronislaw Malinowski. Sono i diari di uno dei padri fondatori dell’etnologia pubblicati postumi nel 1967 che raccontano i retroscena delle sue spedizioni nelle isole del pacifico nei primi anni del novecento. Malinowsky è famoso per aver creato il mito dell’antropologo che s’immerge a contatto con l’indigeno partecipando alla sua vita annullando la distanza tipica tra il colonialista e il primitivo inferiore. Nei diari tuttavia traspare tutta l’insofferenza nei riguardi di una vita che ha poco dell’idilliaco e molto delle ristrettezze nonché di pensieri per nulla rispettosi dell’indigeno, oggi diremmo razzisti.
Sia in Pavese che in Malinowsky sembrano uscire allo scoperto gli aspetti oscuri di animi umani fin troppo idealizzati ad esempi d’integrità morale e apertura alla diversità.
Cosa rappresentano i loro diari?
Come dovremmo considerare dalla prospettiva psicologica i contenuti raccontati da questi due grandi personaggi?
Il fascista che è in Pavese o il razzista che è in Malinowsky devono essere presi come dimostrazione dell’ipocrisia morale svelata da parole segrete che celano la loro vera anima?
Allorché rendiamo pubblici degli scritti che non sono fatti per essere pubblicati e lo facciamo senza il consenso dell’autore andiamo incontro ad una violazione. Il diario è uno scritto che nasce per essere una riflessione intima e personale fra se stessi e come tale è un modo di trasportare su carta il pensiero spontaneo come quello che passa nella mente di ognuno libero da censure o dal timore di essere giudicato.
Il diario a volte si affaccia direttamente sul mondo psichico senza i filtri del Super-Io o del censore freudiano permettendo allo scrittore di far emergere quello che comunemente si nasconde. Siamo abituati a vedere le persone attraverso la loro facciata esterna senza ammettere la possibilità che tutti possiedono un magazzino di cose brutte, discutibili e sbagliate. Anche nel mondo più intellettualmente sviluppato non manca lo sconcerto quando si alza il velo della personalità ordinaria e si lascia emergere un po’ del fango psichico.
Infatti non è facile capire che la personalità è tanto più realizzata quanto è ricca di aspetti contraddittori.
Tutti i grandi intelletti ma io direi anche molti altri che non hanno la fortuna di salire su di un podio sono stracarichi di contraddizioni e segreti che devono cercare di far convivere come salvare non una ma dieci capre e dieci cavoli. In barba alla coerenza e all’innocenza, una personalità matura generalmente possiede una torma di demoni che si agitano e che cerca in qualche modo di contenere.
Avere simpatie per il fascismo espresse in un certo momento della guerra e in chissà quale stato d’animo discusso nello spazio del proprio habitat privato di scrittore non credo possa mettere in discussione il sentimento ideologico di Pavese se non per coloro che cercano lo scandalo o che non hanno idea di come funzioni la psicologia umana.
Se poi scendiamo nel cuore di tenebra di Malinowsky non possiamo esimerci dal fatto che il razzismo, il pregiudizio nei confronti della diversità e dell’altro, è un immaginario atavico che esiste e va riconosciuto, benché possa essere passato al vaglio dell’intero parlamento psichico e lasciato infine in un piccolo angolo come il demone della merda. Ogni dio ha bisogno di un altare.
Conclusioni. Ammettere e annettere il male
Torna periodicamente a presentarsi il tema di che spazio debba occupare il male. Il pensiero cattivo, il sentimento di odio, il pregiudizio razziale, il sadico desiderio di sterminio, la potenza aggressiva, la voglia di distruggere, sentirsi appagati di un egoismo ottuso, come possono essere accettati?
Nella prospettiva psicologica archetipica, possedere tali immagini non significa essere cattivi peccatori vittime del demoniaco. Un conto è avere certi pensieri, un altro è pensare che siccome si hanno allora si è malati o maligni oppure al peggio, se li penso devo anche metterli in atto.
Dall’altro lato notiamo esserci fascisti e razzisti che esercitano di fatto la prepotenza e il pregiudizio attraverso le azioni. Sono dell’opinione che tali persone non posseggano una rappresentazione di quello che fanno ma agiscano in maniera diretta e immediata ad impulsi di rabbia e paura. Quello che faremmo tutti se fossimo lasciati nell’ignoranza senza possibilità di pensare. Bisogna prendersi cura dei propri fratelli cretini, per parafrasare Pasolini (cfr. Lettere Luterane, Einaudi, 1976, p. 11).
Se proprio dobbiamo invocare un peccato sappiamo quale termine dare: letteralismo o concretismo. I diari, in un certo senso opere personali e segrete, sono per definizione uno spazio esente dal concretismo, andrebbero lasciati nel loro bisogno di essere divagazioni libere di sfogare idee di qualunque genere.
Penso allora che potrebbero essere una bella cura contro l’avanzare imperante del cretinismo.