La banalità del “non è possibile”
Non è l’Olocausto ciò che troviamo difficile da comprendere in tutta la sua mostruosità. È la civiltà occidentale che l’Olocausto ha reso pressoché incomprensibile (Zygmunt Bauman)
“Non è possibile”.
È una delle frasi che troppo spesso si sono ripetuti i cittadini, le autorità, le coscienze individuali e collettive, riferendosi allo sterminio di ebrei, omosessuali, “zingari”, oppositori nei cupi anni della Shoah. “Non è possibile” è una delle frasi che troppo spesso ci ripetiamo davanti ai sistematici stermini che, seppure senza la meccanica brutalità della Shoah, si ripetono giorno dopo giorno. Non è possibile sopravvivere: probabilmente è la convinzione che andava e va sedimentandosi nelle vittime di cieca, sistematica violenza. Non è possibile: è la frase che ripetiamo, consapevolmente o meno, a noi stessi, per fuggire al prendere coscienza di quanto l’umanità possa essere capace anche di portare sterminio nella nostra vita. In queste righe proverò a suggerire, a me e a ciascuno di voi, come poter meditare sulla Giornata della Memoria.
Umani e inumani
Prima, durante e dopo la mia prigionia mi ha ferito l’indifferenza colpevole più della violenza stessa. Quella stessa indifferenza che ora permette che Italia e Europa si risveglino ancora razziste; temo di vivere abbastanza per vedere cose che pensavo la Storia avesse definitivamente bocciato, invece erano solo sopite (Liliana Segre)
C’è uno schema di lettura indispensabile per comprendere cosa è successo nella civile Europa negli anni ’40 del secolo scorso. La ghettizzazione, le deportazioni, lo sterminio sistematico sono, con diversa gradazione, eventi e realtà che poco hanno di umano. Sì, perché l’essere umano, nella sua condizione di coscienza, ammette la violenza solo come reazione.
C’è chi ancora oggi valuta plausibile la pena di morte, come reazione a crimini come la pedofilia, l’omicidio plurimo. Molti di noi, probabilmente, non esiterebbero ad usare violenza contro chi minacci la vita di una persona cara. Nella condizione di coscienza, viceversa, andrebbe fuori dai parametri della nostra morale l’idea di sterminare, sistematicamente, un popolo intero. E allora com’è stato possibile che ciò avvenisse? Com’è ancora possibile che in intere zone del mondo siano ancora in corso eccidi, violenze e discriminazioni sistematiche basate su concetti inesistenti come quello di “razza”?
La risposta psicologica risiede in uno dei temi più cari alla Psicologia Sociale: la deumanizzazione.
La deumanizzazione, sinteticamente, è la privazione di umanità. È la costruzione di una narrazione secondo cui una persona o un gruppo di persone smettano di essere viste come umane. Si elimina la condizione di dissonanza dalla radice. Gli oggetti non possono sentire dolore: perché dovremmo temere di provocargliene? Un ufficiale – un diretto superiore – ha il diritto di impartire ordini ai suoi sottoposti: una gerarchia che legittima determinati comportamenti. Se non ci fosse la cornice della Legge, la gerarchia permetterebbe a un uomo di imporre la morte di un altro uomo. Creare una gerarchia di uomini puri opposti a uomini inferiori dà ai primi il diritto di creare una supremazia, anche in termini di vita e di morte, di dignità umana e di inferiorità in-umana.
Ecco perché nella narrazione collettiva della Shoah, gli ebrei, gli zingari, gli omossessuali erano tutti ritenuti tanto inferiori da essere non umani. Potevano avere l’utilità di un animale da soma. La dignità dei polli d’allevamento rispetto al cane di casa.
Ecco perché sparivano i nomi e comparivano numeri. Ecco perché c’era la sterilizzazione di massa. Ecco perché sparivano case, mestieri, ruoli. Ecco perché prima furono costruiti i ghetti e poi i campi di lavoro e di sterminio.
Ecco perché oggi c’è chi può dire che la Shoah non è esistita: molte delle prove che accuserebbero uomini di aver sterminato altri uomini sono state cancellate, come si è provato a cancellare l’umanità stessa delle persone.
Primo consiglio: ricordiamoci, ogni giorno, che la privazione di umanità (una donna che ci è antipatica che diventa una “puttana”; un migrante che diventa un “immigrato che porta delinquenza e malattia”; una persona di etnia rom che diventa “ladro, truffatore, rapitore”) è ancora presente. Una minaccia costante alla Psicologia stessa.
Alla ricerca di una regola
Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere (José Saramago)
Tutti noi nel corso della nostra vita cerchiamo regole, schemi di comportamento, valori inalienabili a cui ancorarci per far fronte alle crisi. Tuttavia, ci sono momenti in cui le regole vengono meno. Perfino la moralità svanisce nel nulla.
Nel celeberrimo film “Schindler’s list” c’è un mantra ricorrente che da sempre mi trapana il cervello. Il racconto di come nella disumana organizzazione dei campi di lavoro e di sterminio non ci fosse una regola a cui appellarsi. Non c’era un principio di buona condotta per non incorrere in sanzioni e in esecuzioni. Si era perennemente sospesi tra vita da non umani e morte. E in molti casi la morte era l’unico sistema per riacquisire la dignità dell’essere umani. E anche quest’ultima veniva impedita con i forni crematori, utili non solo per far sparire le prove (quell’habeas corpus tanto caro al diritto anglosassone). Non c’erano regole di umanità nemmeno per gli esecutori finali o per i comuni cittadini che erano presenti agli scempi contro l’umanità di quel periodo. Le regole sembravano essere svanite nel nulla.
E allora com’è stato possibile sopravvivere? Com’è possibile ancora oggi chiudere gli occhi davanti ai massacri, alle violenze, al morire di fame e di stenti, alla privazione di umanità?
È possibile. Perché molto spesso le regole che noi riteniamo valide, che issiamo a caposaldo della nostra esistenza, vivono esclusivamente nel confine della nostra quotidianità. Una volta usciti da quel confine, ecco che tutto svanisce. Gli ebrei venivano ghettizzati prima di essere deportati, proprio per farli uscire dalla quotidianità degli altri esseri umani. Erano allontanati dai ruoli e dalla vita sociale, perché l’umanità avrebbe dovuto dis-abituarsi dalla loro esistenza.
In molte zone del mondo, i “diversi”, che siano oppositori di regimi dittatoriali, che siano gli stranieri di una patria nazionale, che siano una minoranza etnica o di credo religioso, possono subire violenze e deumanizzazione nel momento in cui ci dis-abituiamo al vedere. Li escludiamo, consapevolmente o meno, dal nostro sistema. E tutto può così diventare evanescente.
Secondo consiglio: abituare lo stomaco. Volgiamo lo sguardo per evitare fastidio. Per non turbare il nostro sonno. Possiamo imparare a guardare e cercare l’umanità, anche nella sofferenza, anche nella privazione di umanità.
La possibilità di ribellarsi?
L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria (Primo Levi)
Perché gli ebrei non si sono ribellati? Perché non hanno messo mano alle armi per difendersi? Perché in Italia è stato permesso al Fascismo di salire al potere e di imporre la violenza come metro di vita?
Non ho risposte definitive a queste domande. Ma sono convinta che l’umanità non si è spenta. Nemmeno nei carcerieri, negli sterminatori. Ecco perché sono contraria alla pena di morte. L’umanità non si spegne, nemmeno nei momenti in cui la violenza, cieca, brutale e sistematica, sembra avere la capacità di annullare perfino la luce del sole.
Ed ecco l’ultimo consiglio per meditare sulla Giornata della Memoria: cercare la luce.
Anche un minuscolo fiammifero può spegnere il buio della notte. Anche una briciola di umanità può far cadere il velo che copre gli atti di disumana incoscienza. Accendere un fiammifero. Accendere lo sguardo. Accendere la nostra umanità, avvicinandola all’umanità anche di chi viene narrato come “diverso”, come “inumano”. Ecco ciò che nella normalità della nostra quotidianità possiamo fare per ribellarci e per meditare, anche sulla Giornata della Memoria.