Gamification. Usare il gioco per migliorare il lavoro

No, non è una nuova etichetta patologica, certamente l’ennesima parola inglesizzante che vorrebbe proporci nuove e sedicenti strategie di apprendimento e di marketing. Ma di cosa stiamo parlando esattamente usando il termine gamification? In italiano si tradurrebbe con ‘ludicizzazione’. A me fa pensare ad un nuovo modo per torturare e denaturare il nostro povero, vecchio  e nobile ludus, il gioco.

Gamificare o ludicizzare significherebbe trasformare un esercizio o un lavoro in un gioco. O meglio, usare metodi e tecniche dei giochi in contesti non ludici. Detta così non sembra male, anzi, sembra proprio una cosa interessante. Rendere tutto come se fosse un gioco, accattivante, divertente ed appagante.

SuperEdilManPro2.0

Immagina: arriva un manovale alle 7,30 del mattino, fa un freddo cane, il giorno stenta ad emergere da una coltre di nebbia grassa e umida che non basterebbe neanche la muta di un sommozzatore per isolarsi dall’umido. È già stanco e lo aspetta un camion di sacchetti di cemento da scaricare, centinaia, del peso di venticinque chili cadauno. Guarda il camion, poi prende lo smartphone e clicca sull’app che il suo capo gli ha fatto istallare: SuperEdilManPro2.0. Apre la schermata ed appare il suo nickname che svetta in cima ad una lista di altri nomi. È il primo in classifica da dieci giorni. Due ore e trenta, dieci minuti prima del suo collega! Se continua così tra qualche giorno otterrà il primo livello: la cazzuola di ferro. Sembra inoltre che il capo abbia messo in palio anche un premio di produzione per il risultato raggiunto. Sarà suo, non c’è dubbio!

In un altro edificio, in quella mattina, lo sviluppatore di software si confronta con lo psicologo:

«Dott. Skinner, mi sembra che la nuova applicazione di ludicizzazione degli operai funzioni alla grande! Ha aumentato la produzione del 20% in un mese a seguito di una spesa minima. Sembra che il personale sia più interessato al punteggio che non ai guadagni!»

Lo psicologo fa un sorriso furbo:

«Era prevedibile. Lo stimolo all’apprendimento può essere veicolato modellando l’immagine del successo. È sempre necessario un incentivo economico ma la spinta agonistica nella specie umana è più forte di ogni altro stimolo, anche di quello sessuale. Adesso occupiamoci del nuovo software per l’orientamento delle scelte politiche…»

Applicazioni ludicizzanti per quasi tutto

Salute, informazione, tempo libero: tutta la mia vita sta diventando un grande gioco, costantemente soggetta a premi e incentivi per spronarmi a fare ciò che si vuole che io faccia (A.D. Signorelli, La gamification di quasi tutto, www.iltascabile.com, 29-10-2019).

Mi colpisce la quantità di applicazioni che utilizzano il sistema dell’acquisizione di punteggio diviso per livelli, praticamente non c’è limite a trasformare in una sorta di gioco qualunque tipo di attività.

L’importante è dare l’impressione di una serie di obiettivi raggiungibili ed ordinarli in un percorso che confluisca in una classifica a premi e che dia la percezione del miglioramento. Vedere i risultati raggiunti, saperli quantificare e condividere è uno degli strumenti più potenti che l’apprendimento conosca. Dall’addestramento dei cani alla formazione del soldato perfetto o dell’atleta olimpionico, l’apprendimento per obiettivi ed il riscontro della propria autoefficacia costituiscono il mezzo principale con cui sviluppiamo le nostre abilità.

Ma chi decide come devo immaginarmi?

Ed il mondo informatico questo lo ha capito benissimo dal semplice ed innocente like ai più sofisticati software come quelli utilizzati per l’allenamento con tanto di biofeedback dei parametri vitali.

Potremmo ben dire che il rapporto con se stessi, il modo con cui io entro in relazione con il mio sentire e con le mie idee, viene fortemente influenzato da un’interfaccia che mi rappresenta quello che sento e che penso con parametri simili a quelli di un comune videogioco.

Dobbiamo considerare questo un bene o un male?

Se gamification significa assoggettarsi in maniera passiva ed inconsapevole ad un modo di semplificare la propria percezione di sé fino a ridurre i propri desideri e motivazioni ad un adeguamento a classifiche e punteggi da ottenere per un’idea di successo commerciale allora è un male. È molto male.

Se gamification è un modo per aiutare a dare una forma iniziale di stimolo verso attività altrimenti difficili da gestire e per attivare un’immagine motivazionale inedita ed originale allora è un bene. E chi ne ha più ne metta. Di fantasia intendo.

La nostra gamification si chiama psiche

Io credo che un’interfaccia ludicizzante già la possediamo da sempre. Si chiama psiche e l’immaginazione è la sua sostanza propulsiva.

Il sapere e la conoscenza sono le spinte più potenti che possediamo. Hillman ne parla facendo riferimento al latte nutrimento metafora della conoscenza:

Il latte rappresenta sia la connessione originaria con quel mondo che aneliamo a ricordare, sia la sete continua che ne abbiamo (J. Hillma, Puer aeternus, Adelphi, Milano, 1999, p.137).

In quest’immagine penso si esprima il rapporto ambivalente che si ha con la conoscenza. Mettersi a disposizione del conoscere è come essere un lattante e questo rende chi il seno te lo offre responsabile di un potere immenso. E’ molto rischioso affidarsi a chi offre sapere in modo accattivante e magari servito su di un ‘seno d’argento’ come accade per i sistemi che abusano di gamification. Si rischia di continuare ad essere lattanti ovvero dipendere da chi è capace di condizionare le tue scelte e poi le tue idee.

Conclusioni: la gamification si fonda sul condizionamento operante

L’efficacia della gamification più diffusa si fonda sui principi del condizionamento operante e tende a far dimenticare che l’addestratore sia una persona alla quale ci affidiamo e da cui abbiamo accettato la sua manipolazione. Fuori da questa contrattualità il primo addestratore di me stesso vorrei essere io o quantomeno vorrei essere consapevole di quello che scelgo d’immettere nei miei processi di apprendimento e di conseguenza come il mio palcoscenico psichico viene delineato.

Vorrei inoltre imparare ad essere più attento alle mie sensazioni e percezioni dirette che ho del mondo che mi circonda piuttosto che rivestirle di scale e parametri di riferimento imposte da altri per motivi mode ed interessi che non mi è dato sapere.

Penso che essere attenti al mondo psichico nasca dall’essere attenti al proprio mondo dei sensi, letteralmente come vedo, sento e tocco direttamente e senza interfacce, vale a dire nomi, etichette o stereotipi. Capisco però quanto questo possa essere difficile e lontano dalle più comuni logiche algoritmiche del consumo.

P.S. CLICCA QUI per leggere gli altri articoli di Riccardo Brignoli