“Pensiamo al respiro solo quando ci manca” (E.Bosso)
Quando incontriamo la morte restiamo sempre senza respiro. E se chi viene a mancare era chi si definiva “compositore pneumologo” ossia uno studioso del respiro, allora siamo chiamati a ripensare al modo in cui respiriamo. “Se incontri un maestro uccidilo” è, invece, il titolo parafrasato di un noto saggio di Sheldon Koop e ci invita a rinunciare ai maestri per divenire noi stessi maestri. Questo è stato il destino di Ezio Bosso, morto per un cancro e afflitto da malattia neurodegenerativa, obbligato a farsi maestro di se stesso poiché nessuno era in grado di indicare la via da seguire nella sua particolarissima vita artistica e biologica.
Lo abbiamo osservato e ascoltato dirigere e suonare, abbiamo ascoltato le sue parole perché ci indicassero come rapportarci con la caducità. Ha vissuto sul limen della terra in cui la signora con la falce era signora assoluta, e lo ha fatto come padrone di casa ironico e integerrimo. Oggi lo ricordiamo perché nel suo trapasso e nel suo trasmutare è contenuto un messaggio immaginale, è contenuto l’obbligo di portare con noi i contenuti delle sue esplorazioni sul respirare. La morte di Bosso allora è la necessità di trasformare il nostro rapporto con il respiro.
Sei tipi di respiro, sei declinazioni di Psiche
Il primo respiro è quello con cui iniziamo a vivere e si mostra violentemente candido. Uno schiaffo sul “culo” che arriva come una carezza.
La mancanza di respiro, invece, quella di una corsa a perdifiato che contiene in se l’eccitazione e la bellezza del limite, è il secondo tipo.
Il terzo è il singhiozzo come respiro contratto e pulsante che scandisce il pianto ricordandoci che nel dolore possiamo continuare a vivere.
Poi abbiamo il respiro come incontro tra gli opposti, opposti che respirano insieme. Questo quarto tipo di respiro è quello che ci dona il “festina lente”, quell’affrettarsi lentamente che già i latini avevano messo a fuoco e che ci invita a respirare insieme, a trovarsi.
Il quinto tipo di respiro che il nostro gentile Bosso ha contemplato è quel parlare “sotto il respiro”, quel sussurrare che è tipico degli innamorati. Ma questo stesso respiro dell’amore è anche quello che si accende nel mito e nella mitologia. La parola mito rimanda infatti al “sussurro” e dunque all’amore. Ma amore come Eros, come slancio vitale.
Quando giungiamo al sesto respiro incontriamo l’ultimo respiro e sarà il sesto perché il sei è l’unione tra anima e animus, tra yin e yang, perché il sei è il vero inizio dell’opus, dicevano gli alchimisti. L’ultimo respiro che contiene e riassume tutta la nostra vita e l’esistenza del cosmo. “Espirare” è l’atto finale con cui restituiamo al mondo l’aria che gli abbiamo rubato. Come se il cosmo respirasse l’aria dei nostri polmoni. Espirare come pegno estremo di gratitudine che consegniamo al mondo.
Imparare a respirare, insomma, è una questione di morte, si perché avremo imparato a farlo solo dopo l’ultimo respiro.
Apologia del respiro
Insomma un’apologia del respiro quella del nostro caro direttore di orchestra che si è piegato al volere del corpo, nonostante la sua indole da direttore. Allora l’apice della sua apologia risiede proprio nel suo trapasso, nel suo sottostare al destino caduco. Morendo ha reso concreto il suo percorso immaginale. Bosso ha osservato, esplorato, ascoltato e percepito il suo respiro. Ha contato i suoi respiri e si è chiesto ogni giorno quale sarebbe stato l’ultimo. E se muore un maestro del respiro, allora noi che entriamo in risonanza con questa morte, siamo chiamati a osservare, esplorare, ascoltare a nostra volta. Siamo chiamati a contemplare il respiro, e con lui tutto ciò che è aereo, tutto ciò che è soffio vitale ossia Psiche. E non poteva essere più necessaria questa operazione proprio oggi, proprio oggi che siamo funestati da un virus che va proprio a colpire la nostra capacità di respirare.
Bosso si fa psicologo
La polmonite con la corona forse voleva dirci proprio questo. Ma siccome non siamo dei bravi ascoltatori, ecco che un altro evento viene a indicarci la necessità di rivedere il nostro rapporto con il respiro, il soffio, la psiche. Voglio pensare a Ezio Bosso proprio così, come il maestro che decide di morire per indicarci una via che, anche se era già lì davanti ai nostri occhi, noi non riuscivamo a vedere. Bosso ci dice “uccidete e fate morire il direttore dentro di voi, smettete di dirigere l’orchestra e ascoltatevi con rispetto e umiltà. Allora sarete maestri e non più direttori”. Quale migliore terapia.
Non ho mai visto tanta vita in un uomo morente e questo mi ricorda le parole di Hillman che, morente, si soffermò a dire che non si era mai trovato così impegnato a vivere come in quel momento. Allora Bosso ci suggerisce cosa vuol dire essere uomini e psicologi ossia cosa significa essere individui che parlano del respiro e di psiche. Ci rammenta, cioè, che non c’è scienza che comandi quando si parla di psiche perché l’unico esperimento a cui può avere accesso uno psicologo è lo stesso effettuato dal maestro, ossia esplorarsi, nello spirito e nel corpo, con curiosità, fino alla fine. Arrivederci dentro di noi caro maestro.
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