Chiamami per nome: lettura immaginale
Poltrone vuote.
La diatriba tra chi sostiene che questo festival andava annullato e chi invece strenuamente ne difende lo svolgimento. Anche il rito della kermesse più famosa d’Italia ha subito la sua modifica radicale da Covid. E se questa modifica andrà o meno a buon fine, lo sapremo tra qualche giorno. Ma tra quelle poltrone vuote o riempite da palloncini, tra conduttori e ospiti, i cantanti si sono trovati a cantare su un palcoscenico vuoto, senza pubblico. Si sono trovati a cantare all’interno di uno dei peggiori incubi degli artisti. Ascoltando le diverse canzoni in gara, una ha colpito la mia immaginazione. Una canzone in particolare mi ha fatto immergere nel senso di questo strano Sanremo. E in queste righe vorrei viaggiare con voi nella lettura immaginale della canzone di Francesca Michelin e di Fedez “Chiamami per nome”.
La paura
“Vorrei dirti non ho paura”.
Francesca Michelin stringe i pugni cantando queste parole. Fedez sembra pietrificato. Per chi non conoscesse la storia del marito di Chiara Ferragni, basti sapere che nonostante la notorietà, Fedez è profondamente timido. “Vorrei dirti non ho paura”. Una frase che stona, guardando gli artisti in gara. Una frase che stona, se ci immedesimiamo in quello che stanno vivendo i lavoratori del mondo dell’arte. La paura è il primo potente sentimento che prende piano in questa canzone.
Gli artisti di Sanremo stanno cantando, suonando, conducendo, preparando costumi, scenografie ecc. Ma stanno lavorando per un teatro vuoto. Sì, ci sono le spettatrici e gli spettatori a distanza. Ma l’adrenalina è diversa. C’è il panico della diretta, ma non c’è l’adrenalina del palco, degli applausi, dell’arena. Ed è la paura che salta agli occhi nel guardare Francesca e Federico che cantano sul palco dell’Ariston.
C’è la paura di tutti i lavoratori del mondo dell’arte e dello spettacolo. La paura dei teatri chiusi. La paura del lavoro che svanisce nel nulla. La paura del precariato (non solo contrattuale…) con cui le artiste e gli artisti sono abituati a confrontarsi, ma che oggi è diventato una possibile condanna a morte. C’è il precariato degli artisti che ricevono compenso solo se apprezzati dal pubblico. C’è il precariato di chi ha vissuto per l’arte, ma che oggi non sa come portare il pane in tavola. Difficile credere che artisti rinomati nel mondo possano subire questo precariato… Ma la musica non conosce differenze di casta o di classe. “Oggi ho una maglia che non mi dona”. Francesca inizia a cantare, con questa frase. Sono fuori posto, sembra voler dire questa canzone. Sono fuori posto, ma voglio provare a urlare che non ho paura… “Vivere un sogno porta fortuna”.
Sol* contro mille
Chiamami per nome è un brano che appare come una canzone d’amore. Un dialogo fra un uomo e una donna che cercano la loro identità. C’è un percorso preciso nel brano. Si parte dalla paura; l’abbiamo detto. E poi?
E poi c’è ancora una metafora di questo strano Festival di Sanremo e di questi mesi di pandemia globali. Ricorre in tutte le strofe della canzone. C’è l’idea di mille e mille. C’è l’idea dei numeri enormi con cui confrontarsi. E c’è la solitudine. Uno contro mille.
Ci sono i mille e mille a cui si poteva parlare da un palco. E ora c’è la solitudine.
Ci sono le mille e mille persone a cui la vita è cambiata e tu – artista privilegiato – sei solo a cantare.
Ci sono le mille e mille paure con cui ciascuno di noi si confronta ogni giorno. Ma ci scontriamo fondamentalmente da soli con queste paure.
Fedez canta: “So bene come dare il peggio: non darmi consigli”. In questi mesi, nelle nostre solitudini, abbiamo letto continuamente persone che davano consigli. All’inizio della pandemia, c’era chi dava consigli su come lavarsi le mani. Poi siamo passati ai DPCM con le regole di comportamento e con quei comportamenti fortemente consigliati. E ancora abbiamo assistito agli assembramenti, ai comportamenti contro-logica. In qualche modo, tutti sappiamo come dare il peggio di noi. In qualche modo tutti sappiamo quanto sia difficile rinunciare a qualcosa. Esempio banale: quanto è difficile smettere di fumare? Se qualcun* di voi ha mai provato a smettere di fumare, sa bene quanto è stato controproducente avere vicino persone che ripetevano “smetti di fumare” o “ancora fumi?!”. Ancora…quanto è difficile vivere amori e rapporti di affetto a distanza? Ci hanno riempito di consigli, di indicazioni…ma spesso, chi più chi meno, le abbiamo travisate.
“Ho un angelo custode sadico”. La nostra coscienza, individuale o collettiva, a volte è davvero sadica. La nostra coscienza sembra sadica perché ci fa percepire come sbagliate (attenzione, “sbagliate” non “pericolose”) alcune pulsioni. La coscienza sadica è quella che ci fa sentire sbagliati. E in una canzone che parla di amore, di paure, di solitudini, la coscienza sadica è quella che dice che è sbagliato avere voglia di cantare in un teatro pieno. Ci dice che è sbagliato avere voglia di amare una sola persona, anche se fisicamente circondati da mille e mille altri esseri umani. Ci dice che è sbagliato avere voglia di farsi docce di ore e ore, perché si spreca tanta acqua da svuotare il mare.
Questo è il meccanismo perverso. Additare come “sbagliati”. E non guardare il pericolo che c’è. Non è sbagliato amare in mezzo a mille persone, ma oggi è pericoloso. E il mare svuotato (ulteriore potente simbolo di questa canzone) lo riempiremo con le nostre lacrime…
Chiamami per nome
Titolo e richiesta pressante. Morale del brano. “Chiamami per nome” è la richiesta di avere un’àncora nel mare in tempesta.
Il nome. Dare un nome alle realtà che ci circonda significa riconoscere la dignità dell’esistenza. “Sia santificato il tuo nome” è la prima invocazione che si ripete nel Padre Nostro. Quando nasce un* bambin* i genitori scelgono il nome: ammettono la sua esistenza.
E la canzone aggiunge una condizione: “Chiamami per nome solo quando avrò perso le parole…Ora che ho solo te”. Per poter vivere il dialogo d’amore del brano, per poter accogliere le immagini di questa canzone, bisogna perdere le parole. Nel mare di informazioni, di comunicati, di video lezioni, di video conferenze, di post, per trovare un nome è necessario perdere le parole.
Un piccolo inno a questo Festival: perdere le parole, far restare la musica.
Un piccolo inno per questi mesi passati e per quelli che ancora devono arrivare: perdere le parole, trovare un nome, per scoprire le radici di ciò che amiamo. “Ora che ho solo te”.
E poi l’umanità, spietata e fuori posto, di Francesca e di Federico. Le loro emozioni. La loro paura. Il loro essere soli anche se con mille e mille persone a distanza, follower, euro su conti in banca, ma sempre Francesca e Federico. Anche loro essere umani. Anche loro alla ricerca di un nome da ascoltare quando sono perse le parole. Perché ora, un po’ più di un anno fa, ciascuno di noi ha “solo te”.