L’incubo di Tik Tok: le challenge sono i nuovi riti di passaggio
Tik tok è un luogo di incubazione che leva il fiato. Ce lo conferma anche la notizia dell’ultima challenge, di fatto non così diffusa come si dice, quella sul blackout. Qui vogliamo evitare di demonizzare i social, gli strumenti, vogliamo evitare di confondere la pistola con il grilletto o con la mano. Qui vogliamo suggerire come i social, tik tok in particolare, siano le nuove piazze, le nuove agorà, dove si espletano i riti di passaggio, le iniziazioni nelle loro forme contemporanee: le challenge. Vogliamo solo evidenziare come la grande libertà conquistata dal mondo occidentale ci ha visto orfani di quei riti iniziatici e di passaggio che scandivano le fasi della vita. I riti scandiscono il ritmo del nostro incedere come il metronomo per il musicista. Questa perdita, quella del metronomo, vede i giovani opporsi e cercare nuovi ritmi generando nuove forme di iniziazione e nuovi riti.
Ma Challenge, che significa?
Banalmente significa gara, sfida, impresa, disputa. Ma anche, e qui sta l’altro aspetto mitologico legato al rito, “calunnia” o “Chiamata in giudizio”. Quindi nelle sfide, nelle dispute o nelle imprese si torna a quelle prove che nella mitologia servivano a favorire il passaggio dall’infanzia alla pubertà, da questa all’adolescenza e poi all’età adulta. Prove alla cui fine c’era il giudizio. Gli spartani, addestrati al combattimento sin da piccoli, entravano nell’età adulta dopo la challenge Krypteia, il periodo di allontanamento in cui dovevano cavarsela completamente da soli senza risorse. Ma anche la challenge sacrificio della figlia, quella di Agamennone verso Ifigenia, è un iniziazione in onore di Artemide. Ed Ercole? Si lui con le sue 12 challenge. Oppure la challenge circoncisione o, più semplicemente la comunione, la cresima, il servizio di leva, l’anello di fidanzamento, gli esami di maturità o gli esami di Stato. Tutto sta lentamente scomparendo. Relegando il mito nella casa della superstizione e riponendo in cantina tutti i riti, abbiamo conquistato una libertà psicologica che a volte assume la forma di un’agorafobia. Per questo stiamo ricreando i riti nelle nuove agorà che non ci fanno paura: i social.
Liberi di imprigionarci
Ma chi ci ha fatto il dono di questa enorme libertà? Chi ci ha reso liberi di individuarci, di scegliere il lavoro che avremmo fatto, il marito, la moglie. “Da grande voglio fare il…” La psicologia, il femminismo, i movimenti per i diritti umani… abbiamo tanto combattuto per la nostra libertà da essere riusciti a conquistarla. Siamo dei privilegiati noi occidentali. Eppure qualche nostalgia c’è. E quando c’è un po’ di nostalgia significa che abbiamo buttato via anche il bambino insieme all’acqua sporca: il rito. Non andrei a scomodare grandi antropologi, direi semplicemente che nel rito c’è, in nuce, ciò in cui ci trasformeremo. Il rito invoca la trasformazione, la favorisce. Come un enzima funge da catalizzatore che facilita il processo. A volte ci obbliga a quel processo.
Challenge, Incubo, incubazione e iniziazione
E in assenza del rito? In sua assenza il rischio è di fissarci, di prolungare le fasi della vita. Di restare fanciulli, di vivere la tarda adolescenza, di restare dei “bamboccioni”. E se il prolungamento si cronicizza si rischia la cristallizzazione. Allora i nuovi riti, le challenge, anche le più estreme, sono sempre e comunque l’espressione di questo bisogno collettivo di generare riti e quindi di evolversi, procedere da una fase di vita all’altra. Ma alcuni sono così estremi, come anche capita di vedere nella mitologia, che possono diventare un incubo, come nel caso della blackout challenge o nella già più vetusta blue whale . Ma ogni incubo richiede e promuove un’incubazione, ossia la possibilità di far crescere aspetti di noi di nuova concezione. Insomma prima il concepimento, poi il rito, quindi l’incubazione e poi la nascita vera e propria. Così avvengono le fasi di passaggio nella vita.
Blackout challenge e Il dialogo con la morte
Questo è un altro aspetto delle challenge, dei riti iniziatici, ossia il loro porsi come momento di dialogo con la morte concreta per favorire quella immaginale, ossia la metamorfosi e il cambiamento dell’anima. Noi tutti abbiamo un lungo dialogo con lei, con la signora con la falce. In questo dialogo esprimiamo due aspetti di noi. L’uno è l’esercizio alla relazione con la nostra onnipotenza, con il nostro essere superiori alla falce. L’altro è la nostra propensione al cambiamento, alla metamorfosi che la morte da sempre costituisce come immaginario psicologico. Dunque non possiamo pensare che questo dialogo avvenga alla luce del sole, a viso aperto, senza difese. Il piede che preme poco di più sull’acceleratore, andare volontari all’interrogazione, chiamare la ragazza o il ragazzo che ci piace sono alcuni dei tanti casi in cui questo dialogo ci vede fare una sorta di blackout challenge.
Blackout challenge: i riti di altri tempi
La droga e gli allucinogeni, le gare in motorino, i tuffi dallo scoglio più alto, tatuarsi bruciature, verità o conseguenze. Tutta la nostra pubertà e adolescenza è minata da challenge erculee con noi stessi che sembrano sempre ridicole, assurde, senza senso per chi ha qualche hanno in più. Oggi le sfide cambiano ma solo nel contenuto. Gli scopi sono sempre gli stessi. Abbiamo bisogno di criteri per crescere e nell’immensa libertà che abbiamo conquistato come individui oggi, siamo alla perenne ricerca di qualche piccola prigione in cui le pareti limitino il nostro sguardo che va sempre più al di là dell’orizzonte.
Conclusioni
Allora le challenge sono i nuovi riti di passaggio. Quegli stessi riti che una volta ci mettevano di fronte agli immaginari relativi alla morte, alla nostra onnipotenza obbligandoci a chinarci. Ma anche di fronte alla nostra capacità di metamorfosi. Tutto questo per un fanciullo è un vero e proprio incubo che spesso toglie il fiato. Ma come ogni incubo contiene una incubazione ossia la manifestazione di un processo di crescita, di espressione di identità che va al di là di ciò che ci si attende da noi. Allora, oggi come allora, le piazze dove si spaccia la droga, o i social dove si fanno challenge, non sono il problema. Il problema si pone quando da luoghi di passaggio diventano luoghi di destinazione. I social possono essere un grande aiuto se dentro casa, con i figli, con i mariti, con le mogli, con le suocere, ma anche in giro per il mondo restiamo curiosi di chi ci sta accanto, dei suoi cambiamenti delle sue paure, delle sue angosce, desideri e trionfi. Il problema è confondere lo strumento con la destinazione, le scarpe con il luogo in cui ci porteranno, i riti di passaggio con i riti di destinazione.
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